Aspetti operativi nelle politiche del lavoro
Cercando di imitare le scienze naturali, gli economisti negano la natura antropologica del lavoro (considerato come uno dei fattori della produzione).
Il lavoro è la prestazione oraria necessaria a generare un prodotto, in collaborazione con gli altri fattori della produzione: capitale, materie prime e energia.
Per i neoclassici il lavoro è un fattore della produzione il cui prezzo dipende da domanda e offerta.
È una visione che non corrisponde alla realtà.
In questo modo, le scienze economiche contraddicono tutte le altre discipline scientifiche (evoluzioniste, antropologiche, storiche, sociali, filosofiche, aziendaliste) il pensiero giuridico e politico.
Nel 1911, negli USA, l’ingegnere Taylor pubblicò un libro sull’organizzazione scientifica del lavoro destinato ad avere un impatto fondamentale sulla società e l’economia mondiali degli anni seguenti.
Il “taylorismo” sosteneva che il lavoro operaio si può organizzare scientificamente, in base a leggi valide sempre ed in ogni contesto.
Disponeva: che l’organizzazione del lavoro operaio dovesse essere decisa da specialisti e gli operai dovessero solo eseguire il lavoro sulla base delle indicazioni ricevute; bisognava studiare i tempi necessari ed eliminare i movimenti falsi, inutili e combattere la pigrizia; gli operai specializzati non rivestivano più alcun valore aggiunto, in quanto la scomposizione del lavoro permetteva a qualsiasi di essere in grado di svolgere la mansione semplificata predisposta dagli ingegneri, anche se tale mansione poteva risultare ripetitiva.
L’operaio non aveva più contatto con il prodotto finito, né con la produzione nel complesso, poiché lavorava solo su una piccola parte.
Venne introdotta la catena di montaggio, con la parcellizzazione, frantumazione e la rigida divisione del lavoro di fabbrica.
Uno dei primi utilizzatori della catena di montaggio fu Henry Ford.
Inizialmente il taylorismo parve incrementare la produttività.
Nell’Unione Sovietica un minatore, Stachanov, difronte al problema dell’estrazione del carbone era riuscito ad escogitare un metodo di estrazione 14 volte più produttivo di quello studiato dai migliori ingegneri sovietici.
I principi tayloristici furono introdotti nell’Unione sovietica e, se inizialmente questo comporterà un incremento della produttività, alla lunga contribuirà al fallimento del socialismo reale, in cui all’assenza di iniziativa privata e libertà di pensiero e politica, si aggiungerà una produzione di lavoro di tipo meccanico e ripetitivo.
In occidente invece, il confronto tra le imprese, mostrò tutti i limiti del modello taylorista e la vittoria di un modello alternativo, che integrava taluni aspetti del taylorismo.
Bisogna rispettare la natura antropologica e sociale dell’uomo e la dignità e la sua dimensione sociale.
L’idea di ridurre la questione del lavoro alla circostanza che esso comporta disutilità per il lavoratore, la quale cresce al crescere della quantità che egli mette a disposizione dell’imprenditore (offre sul mercato del lavoro) e che tale disutilità del lavoro deve essere compensata dalla utilità che procura il reddito che si ottiene con l’attività lavorativa, è una visione riduttiva del lavoro e della sua reale importanza nel processo produttivo.
Taylor non rispetta la natura antropologica e sociale dell’uomo.
In Italia il riposo settimanale è disciplinato dall’Art. 36 della Cost.; dall’art. 2019 c.c.; dagli articoli 2, 9, 17 D.Lgs. 8 aprile 2003, n.66. Il lavoratore ha diritto ogni 7 giorni a un periodo di riposo di almeno 24h consecutive, di regola la domenica.
La «consecutività delle 24h è un elemento essenziale del riposo settimanale» per consentire al dipendente di recuperare le energie psico-fisiche e per assicurargli un congruo periodo di tempo da destinare ad attività ricreative per sé e per la famiglia.
È necessario che «il riposo settimanale non coincida nemmeno in parte con il riposo giornaliero, ma rimanga ben distinto.
Frazionare il riposo settimanale (di 24h consecutive) in modo da sovrapporre ogni frazione di esso al riposo giornaliero significa frustrare la finalità del precetto voluto dal costituente».
Il periodo consecutivo di riposo è calcolato come media in un periodo non superiore a 14 giorni.
Alcune attività lavorative sono sottratte dal campo di applicazione dell’orario di lavoro e della disciplina sul riposo settimanale: i lavoratori mobili, la gente di mare, il personale di volo nella aviazione civile, il personale della scuola, le Forze di polizia; le Forze armate, la polizia municipale e provinciale, la vigilanza privata, i lavoratori su navi da pesca marittima, i dipendenti della protezione civile, i vigili del fuoco, le strutture giudiziarie, penitenziarie.
Il riposo di 24 ore consecutive può essere fissato in un giorno diverso dalla domenica e può essere attuato mediante turni per il personale interessato a modelli tecnico-organizzativi di turnazione particolare ovvero addetto alle attività aventi le seguenti caratteristiche:
1.operazioni industriali per le quali si abbia l’uso di forni a combustione o a energia elettrica per l’esercizio di processi caratterizzati dalla continuità della combustione, attività industriali ad alto assorbimento di energia elettrica;
2.attività industriali il cui processo richieda lo svolgimento continuativo per ragioni tecniche;
3.industrie stagionali per le quali si ha urgenza sulla materia prima o sul prodotto dal punto di vista del loro deterioramento;
4.attività il cui funzionamento domenicale corrisponde ed esigenze tecniche o soddisfa interessi rilevanti della collettività o è di pubblica utilità;
5.attività che richiedano l’impiego di impianti e macchinari ad alta intensità di capitali o ad alta tecnologia;
6.aziende esercenti la vendita al minuto ed attività rivolte a soddisfare direttamente bisogni del pubblico;
7.esercizi commerciali di vendita al dettaglio;
8.esercizi in comuni ad economia turistica e città d’arte;
9.rivendite di generi di monopolio; vendita interni ai campeggi, ai villaggi e ai complessi turistici e alberghieri; vendita nelle aree di servizio lungo le autostrade, nelle stazioni ferroviarie marittime e aereoportuali; rivendite di giornali: gelaterie e gastronomie; rosticcerie e pasticcerie; vendita di bevande, fiori piante, mobili, libri, opere d’arte, antiquariato, stampe, cartoline, artigianato locale; servizio autostradale; sale cinematografiche;
10.stabilimenti termali.
Nella produzione snella il rispetto per l’uomo riguarda suggerimenti previsti con circoli di qualità dove si permette a ciascun operaio di partecipare alla produzione, ruotando le mansioni.
Negli anni è venuto meno il vincolo che il riposo settimanale avvenga in un giorno prestabilito della settimana.
Il lavoro domenicale viene retribuito più di quello feriale, ma non è possibile rifiutarsi di lavorare.
Il maggior stipendio discende dalla constatazione che la norma legislativa, nello stabilire che il lavoratore ha diritto a un giorno di riposo
«di regola in coincidenza con la domenica», ha attribuito a questa una valenza superiore agli altri giorni della settimana, conseguentemente è stato riconosciuto al prestatore di lavoro che lavora di domenica, una maggiorazione retributiva.
Il riposo ha una dimensione sociale: non è lo stesso per un lavoratore se potrà trascorrere il suo riposo con le persone che ama o no, e non sarà lo stesso la qualità del suo riposo, la ricreazione ottenuta e il suo rapporto con l’impresa.
L’introduzione dello schema taylorista nella grande distribuzione con la catena di montaggio alla cassa è un modello destinato ad essere soppiantato per la mancanza di corrispondenza con la natura del lavoro.
Alcune scuole economiche socialiste hanno sostenuto l’opportunità di ridurre l’orario di lavoro, mantenendo stabile il salario pagato ai lavoratori e aumentando la paga oraria; altri hanno rigettato il modello, avvisando che si riduce la produttività delle imprese, obbligate a più alti costi del lavoro.
Alcuni ritengono che, difronte all’attuale modo di produrre, l’unico modo per consentire a tutti di lavorare è far lavorare di meno ognuno, aumentando la remunerazione del lavoro e riducendo quella del capitale.
Questo modo contrasta con una delle leggi fondamentali dell’economia: lo sviluppo economico è dovuto alla libera iniziativa degli imprenditori che sono mossi nei loro investimenti dalle aspettative di profitto futuro, confrontate con il tasso di interesse corrente di mercato.
La maggior parte degli economisti ritiene che vadano sempre tutelati i profitti, in quanto il processo di accumulazione è il motore dello sviluppo.
In questo modo, però, essi danno priorità al capitale sul lavoro e pongono l’uomo al di sotto del denaro e degli strumenti che adopera per lavorare.
Lavoratori e industriali si combattono in fabbrica, ma è in banca e in borsa che vengono fregati.
È inevitabile una contrapposizione tra capitale e lavoro; esistono numerosi casi di felice intermediazione tra gli interessi degli industriali e dei lavoratori.
Le esperienze più positive sono quella giapponese e tedesca.
Il gioco cooperativo tra capitale e lavoro è la premessa del successo delle imprese tedesche e giapponesi e delle PMI italiane e che la tipica contrapposizione italiana o inglese o francese tra capitale e lavoro nelle grandi imprese industriali è estranea a queste esperienze.
Il rapporto tra lavoro e capitale trova espressione anche con la partecipazione dei lavoratori, il sindacato, la proprietà delle grandi imprese, la sua gestione e i suoi frutti.
Il giusto rapporto tra capitale e lavoro consiste nel trovare le modalità per cui e entrambi abbiano la possibilità di considerarsi comproprietari della medesima azienda e trovano un modo per bilanciare gli interessi in un modello di governance condiviso.
La scuola classica e neoclassica inglese sono portatrici dei valori della borghesia inglese sui mercati mondiali e considerano i lavoratori strumentali al successo della borghesia, mentre il materialismo storico è convinto che “il fattore che è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale” e l’ideologia comunista con l’ideologia sociale darwiniana, che considerava inevitabile la lotta tra il capitale e il lavoro e la vittoria del proletariato sulla borghesia.
Entrambe le scuole non potevano non considerare inevitabile la lotta di classe e la necessità della vittoria di una sull’altra.
Dato il materialismo di entrambe, la loro concezione positivista e il rifiuto di una visione antropologica dei fondamenti microeconomici dell’economia, l’esito di entrambe è il rifiuto del gioco cooperativo tra capitale e lavoro, che riscontriamo invece nelle esperienze reali del lavoro e delle aziende più produttive del mondo.
Per i neoclassici il sistema economico tende sempre alla piena occupazione e i lavoratori sono disoccupati sempre su base volontaria, perché è sempre possibile trovare un lavoro.
Due teoremi consentono di escludere che la disoccupazione involontaria possa permanere: la legge di Say, secondo la quale l’offerta crea la domanda (se il sistema economico è in grado di produrre 10.000, verranno immessi redditi per 10.000, che in parte saranno consumati e determineranno un’equivalente domanda di beni di consumo, ed in parte saranno risparmiati).
I neoclassici sono convinti che i redditi risparmiati saranno messi dal sistema bancario a disposizione degli imprenditori e che si troverà sempre un tasso d’interesse d’equilibrio in grado di dar luogo ad un’equivalente domanda di beni di investimento, pari al risparmio, in modo da assicurare l’equilibrio del sistema economico.
L’equilibrio del mercato del lavoro: i salari, secondo i neoclassici, si muovono sia verso l’alto che il basso, così si uguagliano sempre la domanda e l’offerta di lavoro.
Per i neoclassici, in caso di disoccupazione, si deve ridurre il salario, che induce ad espandere l’occupazione perché gli imprenditori hanno vantaggio a sostituire il lavoro al capitale nel processo produttivo ed a espandere la produzione.
Questo ragionamento è fallace perché non considera le conseguenze della diminuzione del salario reale sulla domanda effettiva rivolta ai beni dell’industria, quando si passa dalla singola impresa al settore industriale o all’intera economia.
Lo schema neoclassico poi non considera le conseguenze sui prezzi dei beni prodotti, destinati a ridursi, data l’ipotesi della concorrenza perfetta e considerata la maggiore produzione.
Una parte della scuola neoclassica moderna, consapevole dei limiti dei neoclassici, ha riproposto la riduzione dei salari reali sulla base di un meccanismo di funzionamento diverso.
Secondo questa scuola, la riduzione del salario reale favorisce l’assorbimento dei lavoratori, in quanto modifica la distribuzione dei redditi a favore dei capitalisti, che accumulano.
Questo processo consente di utilizzare più risorse per produrre beni di investimento.
La premessa teorica è che la disoccupazione discenda da un insufficiente tasso di accumulazione.
Il più elevato tasso di accumulazione, generato dalla riduzione dei salari reali, consente di accelerare l’accumulazione e i maggiori investimenti consentono di ridurre la disoccupazione.
Limite di questo secondo ragionamento: occorre che si verifichino particolari condizioni, che riguardano i sistemi socio-culturale e politico-istituzionale, e le potenzialità di crescita della domanda nel sistema economico, perché l’accelerazione del tasso di accumulazione si traduca in incremento produttivo.
Occorre che la riduzione dei salari si traduca in aumenti dei redditi delle classi produttive, altrimenti i maggiori profitti si traducono in un aumento dei consumi di lusso e in uno sviluppo dell’offerta estera.
Ma, anche qualora i maggiori profitti si traducano in un incremento dei redditi delle classi produttive, non è detto che i capitalisti trovino conveniente investire i maggiori profitti in nuovi investimenti, qualora essi non abbiano adeguate prospettive future di crescita della domanda e di profitto.
La ricetta dei bassi salari si è dimostrata efficace in quei Paesi in grado di produrre per l’esportazione.
Una riduzione dei salari consente allora di ridurre i prezzi all’esportazione.
L’aumento delle esportazioni induce una crescita degli investimenti.
Se per le teorie neoclassiche ridurre i salari reali è inefficace a combattere la disoccupazione, le politiche keynesiane si sono dimostrate insoddisfacenti nella generalità dei casi e incapaci di ottenere un incremento duraturo dell’occupazione e hanno appesantito l’inflazione.
La politica monetaria espansiva non riduce la disoccupazione.
Le politiche espansive delle domande provocano tensioni inflazionistiche e il dibattito tra gli economisti sul presunto trade off tra riduzione dell’disoccupazione e inflazione lascia tutti convinti che nel lungo periodo il trade off non esista e che una politica economica espansiva determini nel lungo periodo solo una crescente inflazione.
Se la politica keynesiana è applicata in una nazione in cui è rilevante il commercio con l’estero, un possibile effetto può essere il peggioramento della sua posizione nell’economia mondiale: crescendo i suoi prezzi, riuscirà a vendere meno beni all’estero, mentre saranno favorite le importazioni.
Questa situazione peggiorerà il saldo della bilancia dei pagamenti.
Per evitare questo, l’unica via è la svalutazione della moneta, che genera altre conseguenze.
L’Italia è in crisi economica e occupazionale che non è congiunturale, ma strutturale, dipesa dalla nuova divisione internazionale del lavoro.
Fattori scatenanti: caduta del muro di Berlino nel 1989; adesione al WTO della Cina comunista nel 1994; divisione della Banca d’Italia dal Tesoro italiano (1994); privatizzazione delle Banche pubbliche (1994); adesione all’euro (2000).
Questi eventi non avrebbero prodotto nessuna conseguenza negativa, se i politici italiani avessero compreso cosa significavano per la politica economica italiana e avessero adeguato la politica economica del Paese al nuovo contesto geopolitico e alla nuova divisione internazionale del lavoro.
Se non fossimo nell’euro la situazione sarebbe peggiore.
La politica economica italiana fu improntata negli anni 60.
In quei tempi l’Italia finanziava la propria spesa pubblica stampando moneta (signoraggio); la dinamica inflattiva dei prezzi determinava uno squilibrio negativo nella bilancia dei pagamenti (i maggiori prezzi delle merci italiane le rendevano meno competitive sui mercati internazionali), che veniva riequilibrato con svalutazioni della moneta; le grandi aziende statali e le Banche pubbliche del gruppo IRI stabilivano la politica industriale e il finanziamento dei grandi gruppi del Paese; nascevano molte PMI.
La divisione mondiale del lavoro era favorevole al nostro Paese: a est del muro di Berlino esisteva l’economia pianificata e non erano possibili investimenti produttivi dai capitalisti occidentali; la Cina comunista non aveva aderito all’economia di mercato; il salario reale italiano era il più basso dell’occidente; era stato costruito un efficiente sistema di incentivi all’investimento diretto estero in Italia, con contributi a fondo perduto del 50% per i nuovi investimenti in capitale fisico in Italia.
L’Italia era il Paese dell’Occidente in cui era più economico impiantare un nuovo stabilimento industriale e questo si tradusse in occupazione e benessere per gli italiani, finché: la caduta del muro di Berlino aprì tutti i mercati dell’Est Europa, Russia inclusa, dove vigevano salari reali a meno di 1/6 di quelli italiani; l’adesione al WTO della Cina aprì un mercato di 1 miliardo di persone agli investimenti capitalisti occidentali, a salari reali a meno di 1/10 di quelli italiani; la divisione della Banca d’Italia dal Tesoro significò la necessità di finanziare le spese correnti dello Stato sul mercato finanziario a tassi crescenti; la privatizzazione delle Banche pubbliche e la fine delle Partecipazioni statali, non sostituita da nuovi metodi di controllo della politica finanziaria nazionale, significò la fine di un’efficace politica industriale e finanziaria nazionale; l’adesione all’euro significò la fine della sovranità monetaria e della possibilità di svalutare la moneta, per compensare gli squilibri inflazionistici.
L’Italia avrebbe dovuto subito sostituire al vecchio schema di sviluppo (basato su ingente spesa pubblica in spese ordinaria finanziata con il signoraggio, svalutazione, esportazioni, bassi salari reali), uno schema nuovo, aderente alla nuova divisione internazionale del lavoro e alla nuova economia della conoscenza basato su: brevetti e innovazione e competitività della ricerca applicata italiana; taglio della spesa pubblica corrente; valuta forte; esportazione di beni innovativi, aumento della produttività reale con innovazione di processo e di prodotto; salari reali più alti, corrispondenti a una maggiore produttività.
Questo non è avvenuto e le produzioni italiane si sono trovate ad essere poco competitive anche perché gravate da: costo dell’energia più alto degli altri Paesi europei del 20%; inefficienza della pubblica amm; tassazione più alta dei principali concorrenti mondiali; cuneo fiscale sul lavoro.
La disoccupazione italiana è dunque una disoccupazione strutturale, dalla quale si esce solo con una coerente Politica economica che rilanci la produttività e la competitività del Paese e non è una disoccupazione congiunturale, ma l’unica reazione che il sistema è riuscito a mettere in campo è di carattere anticongiunturale: la Cassa integrazione guadagni, strumento valido fino alla caduta del Comunismo internazionale, in cui la divisione internazionale del lavoro favoriva l’Italia come Paese di destinazione degli stabilimenti industriali.
Lì lo strumento tutelava l’interesse della grande impresa, durante le congiunture sfavorevoli, di mantenere ad essa legati i propri lavoratori specializzati, in modo che passata la congiuntura negativa, essi potessero ritornare a svolgere la loro attività: è un sussidio alla disoccupazione anticongiunturale studiato sulle esigenze industriali dei grandi gruppi e sulla base della logica di sostegno alla domanda durante le congiunture negative.
Lo strumento oggi non ha senso, perché al termine del periodo di Cassa integrazione quel posto di lavoro sarà eliminato dalla nuova divisione internazionale del lavoro determinatasi dopo grandi mutamenti geopolitici mondiali.
Al contrario della Cassa integrazione guadagni, andrebbe studiato uno strumento che leghi il sussidio alla disoccupazione alla ristrutturazione delle attività industriali attuate dall’impresa e che tenga conto del nuovo contesto internazionale: i lavoratori dovrebbero ricevere un compenso solo se inseriti in questo processo di riorganizzazione e non per non lavorare.
Nel settore terziario e dei servizi, le capacità professionali sono legate alle doti sociali e alle qualità umane dell’individuo, che possono migliorare grazie all’educazione e alla sua preparazione e cultura di base, piuttosto che per la conoscenza di nozioni tecniche acquisite dalle continue innovazioni; la capacità del lavoratore di apprendere, la flessibilità delle sue capacità, predisposizione all’innovazione, diventeranno doti sempre più rilevanti non solo per il singolo ma per il sistema produttivo nel complesso.
L’innovazione sarà al centro dei gruppi di lavoro che si imporranno a livello internazionale nel nuovo contesto competitivo.
Il sistema educativo diventa centrale per preparare i giovani alle sfide del futuro, ma l’analisi economica, invece di comprendere che la nuova economia della conoscenza e dell’innovazione parte dal successo educativo, si è posta il problema di determinare a livello microeconomico, fino a che punto convenga investire nel capitale umano e a livello macroeconomico, ha cercato di cogliere le relazioni tra i livelli di istruzione (non considerati qualitativamente, ma come spesa per studente) che chiamano “capitale umano” e la crescita, con risultati empirici controversi che non potevano che riflettere l’errore di fondo di tali studi: che non partono dalla qualità del sistema scolastico e dalla rispondenza del sistema all’antropologia umana.
Secondo alcuni, la preferenza accordata dalle imprese a chi ha un titolo di studio universitario è determinata non dall’attesa di una capacità di innovazione più alta, ma dalle doti di disciplina e di costanza nel lavoro che possiede chi ha dovuto svolgere un pesante curriculum scolastico.
Questo smentisce la compatibilità degli attuali sistemi scolastici con le nuove necessità dell’economia della cultura e dell’innovazione.
Non abbiamo più bisogno di ordinati e capaci esecutori, ma di appassionati innovatori.
L’eguaglianza tra risparmi e investimenti in capitale fisico non è automatica.