
Politiche economiche internazionali del 1914 al 1939
La condizione di equilibrio di lungo periodo del gold standard è che le esport > import e che l’eccesso di export derivi dall’acquisto di oro o sterline dalle autorità monetarie delle nazioni.
L’Impero britannico risultò a lungo in attivo con la sua bilancia dei pagamenti e immetteva liquidità nel sistema finché rimase la principale potenza economica mondiale.
Il suo declino portò al declino del sistema aureo (o sterlina), perché tutti i Paesi aderenti non rispettarono le regole internazionali sottoscritte, gli USA, in cui affluirono oro e sterline ad esito dei surplus commerciali, per evitare l’inflazione, sterilizzarono l’aumento dell’offerta di moneta.
Viceversa i Paesi in deficit, che avrebbero dovuto accettare forti depressioni, sterilizzarono la diminuzione monetaria con operazioni sul mercato aperto di acquisto di titoli pubblici.
Gli USA non sostennero l’acquisto dei beni prodotti dalle industrie eu, cresciute con il loro credito.
Una delle cause del disfacimento delle relazioni internazionali dipese dagli esiti del Trattato di Versailles.
Il primo ministro britannico, il presidente del consiglio francese Clemenceau e il presidente statunitense Wilson raggiunsero un compromesso al ribasso che porterà alla politica mercantilistica ed autarchica che si registrerà prima della seconda guerra mondiale.
La Francia aveva avuto le maggiori perdite durante la guerra mondiale.
Clemenceau pretendeva dall’Impero prussiano riparazioni che permettessero di ricostruire e riparare i danni causati dai tedeschi.
I Francesi volevano proteggersi contro l’eventualità di altri attacchi della Germania, ma non compresero che il modo migliore per questo non fosse di imporre riparazioni di guerra ai tedeschi, ma di far ripartire l’economia mondiale e ricreare le condizioni per una cooperazione eu e internazionale.
I Francesi richiesero la demilitarizzazione della regione di confine della Renania e il pattugliamento di quell’area dalle forze alleate, la diminuzione del numero di soldati dell’esercito tedesco, la soppressione dell’aeronautica tedesca e ingenti riparazioni di guerra.
Quello che più divideva le forze vincitrici, erano gli interessi geopolitici.
Francia e Gran Bretagna volevano difendere ciascuno il proprio Impero, ma i britannici erano interessati a che la Francia non divenisse potente in eu e per questo volevano mitigare la volontà punitrice francese, in modo che la Prussia tornasse presto a rappresentare una concorrente forte della Francia nel continente.
Gli USA si imposero perché venisse affermato il principio di autodeterminazione dei popoli: gli USA contestavano la politica colonialista dei due maggiori alleati (Francia e gran Bretagna).
L’autodeterminazione è anche in parte la ragione per cui così tante nazioni si formarono nell’Europa Orientale.
Quando il trattato di Versailles venne concluso, la Germania fu costretta a pagare agli alleati 132 miliardi di marchi oro, cedere le colonie, accettare la colpa, ridurre le sue forze armate e cedere territorio a favore di altri Stati.
Keynes partecipò alla conferenza di pace come delegato del ministero del tesoro britannico.
Egli riteneva opportuna una pace con i tedeschi più generosa di quella che fu e lo riteneva non per le ragioni geopolitiche che sosteneva il suo Primo Ministro (in funzione antifrancese), ma per ragioni economiche.
Keynes propose due strumenti di politica economica internazionale e cioè la remissione (annullamento) dei debiti di guerra e un piano di crediti dagli USA per aiutare l’economia eu a riprendersi.
Pensava che la conferenza di pace dovesse gettare le basi per un rilancio dell’economia; al contrario invece si occupò di confini.
Keynes abbandonò i lavori della conferenza di pace e scrisse il libro “Le conseguenze economiche della pace”, in cui predisse l’instabilità delle relazioni internazionali e la crisi economica che quelle condizioni avrebbero determinato.
Le condizioni imposte alle principali economie mondiali per non aver annullato i debiti di guerra della Germania e la bolla del mercato borsistico statunitense sono la genesi del neomercantilismo e dell’autarchia del periodo tra le due guerre mondiali.
Il 24 ottobre 1929 Wall Street crolla.
E’ l’inizio di una delle più gravi crisi economica.
I due atti economici con cui gli USA ‘contagiano’ l’Eu sono il ritiro dei capitali americani (prestiti concessi a imprese e banche, dall’Eu) e la crescente concorrenza esercitata dai prodotti USA rispetto a quelli eu, in seguito ai forti ribassi verificatisi per la crisi.
In Inghilterra il governo laburista nel 1931 reagisce con una politica mercantilista: sospende la convertibilità della sterlina in oro e svaluta la sterlina.
Il Gold standard era già stato abbandonato da molti Paesi, ma la svalutazione della sterlina deprezza le riserve monetarie delle BC mondiali e porta ulteriore depressione; si riducono le merci britanniche sui mercati internazionali; la Gran Bretagna abbandona la politica del libero scambio e crea un’area di Paesi ancorati alla sterlina e rafforza i suoi rapporti commerciali con l’impero a detrimento di quelli con l’Eu (1932, conferenza di Ottawa).
Anche la Francia reagisce con la medesima politica mercantilista, svalutando il Franco, attivando il commercio con le proprie colonie o aumentando le spese militari.
La Germania, uscita sconfitta dalla 1° guerra mondiale si stava riprendendo grazie allo scaglionamento del pagamento delle enormi cifre dovute ai vincitori, ma, dopo la crisi del 29, subisce il ritiro dei capitali americani e il fallimento della Banca Danat e della Dresdner Bank.
Nel 1932 le esportazioni tedesche crollano e nel 1933 sei milioni di tedeschi sono disoccupati.
La BC tedesca svaluta il marco, in funzione mercantilista e inflazionista.
La crisi determina l’avvento al potere di Hitler.
Il nuovo regime sospende ogni pagamento delle riparazioni di guerra e punta a una riduzione della disoccupazione attraverso un programma di riarmo e riorganizzazione dell’esercito.
Violando le condizioni della pace di Versailles vengono affidate commesse militari alle principali industrie tedesche e si organizza l’esercito per la guerra.
Nel comparto industriale vengono impiegati 3 milioni di disoccupati, mentre tre milioni di ex disoccupati si preparano alla seconda guerra mondiale nell’esercito tedesco.
Aumenta il debito pubblico tedesco.
Si preparano a un conflitto generalizzato in Eu per stabilire a chi spettasse l’egemonia mondiale: a nessuna di quelle nazioni.
Tra le due guerre mondiali, mentre si assisteva a politiche autarchiche e protezioniste, con riferimento ai cambi tra le valute si assistette ad un regime di cambi flessibili in alcuni casi e a un regime di cambi controllati in altri.
Quando le divise non sono convertibili in oro, le oscillazioni del cambio valutario tra due monete non dipese più dalle oscillazioni dei punti dell’oro, cioè dell’incremento o decremento della parità aurea rispetto ai costi di trasporto e assicurazione per la conversione della moneta in oro.
Il cambio tra le due monete, in un regime di cambi flessibili (come durante le due guerre) oscilla liberamente senza limiti e dipende solo dalla domanda e dall’offerta delle valute.
Se la domanda di euro aumenta rispetto all’offerta, il prezzo dell’euro in termini di moneta straniera aumenta, finché la domanda e l’offerta di euro non saranno eguali tra loro.
Il cambio di una divisa dipenderà solo dalla domanda e dell’offerta di valuta.
L’economista svedese Cassel enunciò nel 1922 la “teoria della parità dei poteri di acquisto”, definita “legge del prezzo unico” dove sostiene che il cambio di equilibrio tra due monete è sì determinato dalla domanda e offerta delle valute, ma tale domanda tende a essere eguale al rapporto tra i poteri di acquisto interni delle due monete.
Ogni volta che il potere d’acquisto interno di una delle due monete muta, si modifica anche il tasso di cambio.
Ovviamente non si fa riferimento al singolo prezzo del singolo bene, ma alla media ponderata dei prezzi, ovvero al potere di acquisto interno.
Se la media ponderata dei prezzi dei beni in euro, ovvero il potere di acquisto interno dell’euro diminuisce, mentre quello del dollaro rimane stabile o aumenta, il cambio peggiorerà a danno dell’euro.
I meccanismi della concorrenza mondiale internazionale farebbero sì che i prezzi dei beni, espressi in una valuta (immaginaria) comune, siano uguali in tutte le nazioni.
Il primo limite di questa teoria sono le ipotesi troppo semplificatici e cioè la perfetta circolazione delle informazioni; l’assenza dei costi di trasporto; la piena corrispondenza qualitativa dei prodotti.
Poi essa contraddice le maggiori teorie dei prezzi, che spiegano le differenze dei prezzi di un oggetto in base al tempo e al luogo in cui è scambiato: una bottiglia d’acqua ha valore maggiore al centro di un deserto rispetto che vicino a una fonte naturale gratuita.
La teoria della “parità dei poteri d’acquisto” è anche chiamata teoria della “parità dei poteri d’acquisto” assoluta.
Esiste una versione più accettabile, quella relativa, compatibile con la realtà e con le differenze di prezzo che si registrano.
Questa versione prevede che, espresso in valuta comune, il tasso di variazione dei prezzi sia uguale al tasso di variazione dei prezzi del resto del mondo.
dP/P = dE/E + dPm/Pm in cui E è il tasso nominale di cambio (prezzo della valuta estera in termini di valuta nazionale), P è il livello generale dei prezzi del Paese di riferimento e Pm il livello generale dei prezzi dei Paesi che adottano la valuta estera.
Essa spiega la svalutazione della valuta estera in termini di valuta nazionale con l’aumento del livello generale dei prezzi registrato nei paesi che adottano la valuta estera.
Discende: dP/P – dPm/Pm = dE/E.
C’è importanza sempre maggiore dei tassi di interesse nella determinazione della domanda e offerta di una valuta e il ruolo di differenziali tra i tassi delle economie: esistono sui mercati monetari acquisti e vendite di valuta che costituiscono i movimenti speculativi di capitali e che fanno variare la domanda e l’offerta di valuta, modificando i cambi, senza nessuna relazione con il potere d’acquisto interno delle monete.
È un fenomeno che ha assunto rilevanza dal 1980.
In un sistema di cambi flessibili, gli squilibri delle bilance dei pagamenti vengono corretti da variazioni nel cambio, mentre nel breve termine i livelli dei prezzi, del reddito e dell’occupazione nei Paesi non mutano.
Ciò è quasi l’opposto del sistema aureo (sistema a cambi fissi della sterlina), in cui il cambio è fisso e varia intorno ai punti dell’oro, e l’equilibrio nella bilancia dei pagamenti viene ristabilito con variazioni del livello del reddito e dell’occupazione nazionali.
Consideriamo due aree commerciali con due valute diverse, l’euro e lo yuan cinese.
Supponiamo che il cambio dipenda solo dalla bilancia commerciale tra l’Ue e la Rep pop cinese.
Nell’Unione monetaria esistono vari Stati nazionali che, pur avendo un mercato comune e politiche economiche condivise con gli altri, hanno sovranità e bilanci statali separati.
Eventuali sbilanci commerciali di un Paese non influenzano il tasso di cambio dell’euro, quello che conta è la bilancia commerciale dell’Ue nei confronti della Rep cinese.
Nel 2012 la Cinese ha registrato un surplus nei confronti dell’Eu (che importa più di quanto esporta), mentre per la repubblica popolare cinese accade il contrario.
Nei confronti del resto del mondo invece, la bilancia commerciale dell’Eu ha registrato un surplus di 81,8 miliardi di euro, contro il deficit di 15,7 miliardi del 2011.
Il cambio di una moneta dipende, anche nell’ipotesi semplificata che derivi solo dalla bilancia commerciale, dalla sua bilancia complessiva.
Immaginiamo che nel mondo esistano solo l’Ue e la Cina.
Supponiamo che l’Ue importi merci per 400 miliardi di euro e che esporti merci per 200 miliardi.
La domanda di euro dai cinesi, che acquistano le nostre esportazioni, è di 200 miliardi; mentre gli eu che adottano l’euro, per pagare le importazioni dalla Cina, devono comprare l’equivalente in yuan di 400 miliardi di euro, per cui l’offerta di euro (uguale alla domanda di yuan cinesi) è di 400 miliardi.
L’offerta di euro supera quindi la domanda, per cui il prezzo dell’euro in termini di yuan, cioè il cambio euro-yuan, diminuisce.
La diminuzione del cambio, non essendovi più il limite del punto dell’oro, in un sistema a cambi flessibile, continuerà finché la domanda e l’offerta di euro non diventano eguali.
Quando il cambio euro-yuan scende, l’euro si svaluta, mentre quando il cambio euro-yuan sale, l’euro si rivaluta.
Immaginiamo di partire da un cambio pari a 1 euro per un yuan cinese (cambio immaginario).
Immaginiamo che l’euro si svaluta e occorrano ora 2 euro per uno yuan.
Un cinese che voglia acquistare un oggetto italiano o francese che costa 10 euro, al cambio precedente alla svalutazione spendeva 10 yuan, mentre dopo la svalutazione spende solo 5.
Quindi, benché i prezzi, espressi in euro, delle merci dei Paesi aderenti alla moneta euro non si modifichino, le merci di tutti i Paesi aderenti all’euro, diventano meno costose per i cinesi, per la svalutazione del cambio dell’euro.
I prezzi dell’area euro, espressi in yuan, diminuiscono.
Aumenta quindi la domanda di merci delle nazioni che adottano l’euro dai cinesi, cioè aumentano le esportazioni eu.
Sul mercato dei cambi ciò comporta un aumento della domanda di euro dai cinesi e il cambio, flessibile, oscillerà fino a quando la bilancia dei pagamenti tra i due Paesi non torneranno in equilibrio.
La svalutazione dell’euro significa nel nostro esempio rivalutazione dello yuan, per cui un residente nell’area euro, che voglia acquistare un prodotto cinese che costa 1 yuan, mentre prima doveva sborsare 1 euro, dopo la svalutazione dell’euro deve sborsare 2 euro.
Quindi le merci cinesi diventano più costose per gli eu, per la rivalutazione dello yuan.
I prezzi delle merci cinesi, espressi in yuan, non mutano; però gli stessi prezzi, espressi in euro, aumentano.
La domanda di merci cinese dagli eu, cioè le importazioni eu, diminuisce.
Sul mercato valutario una contrazione delle importazioni eu dalla Cina comporta una contrazione della domanda di yuan.
Una svalutazione della moneta comporta il pareggio della bilancia dei pagamenti se si verificano contemporaneamente: elasticità critiche, svalutazione del cambio non deve innescare inflazione da costi, l’assorbimento va ridotto.
Ecco spiegato il riequilibrio nel sistema dei cambi flessibili: nel sistema a cambi flessibili, l’equilibrio automatico della bilancia dei pagamenti avviene tramite variazioni dei cambi.
Non è detto che la svalutazione del cambio comporti il pareggio della bilancia dei pagamenti perché, anche in caso di svalutazione del cambio, perché si abbia un miglioramento della bilancia dei pagamenti del Paese in deficit, deve realizzarsi la condizione di Marshall e Lerner delle elasticità critiche: ἑx+ἑm > 1 in cui ἑx è l’elasticità delle esportazioni e ἑm delle importazioni.
Perché si abbiax+ἑx+ἑm > 1 in cui ἑx è l’elasticità delle esportazioni e ἑm delle importazioni.
Perché si abbiam > 1 in cui ἑx+ἑm > 1 in cui ἑx è l’elasticità delle esportazioni e ἑm delle importazioni.
Perché si abbiax è l’elasticità delle esportazioni e ἑx+ἑm > 1 in cui ἑx è l’elasticità delle esportazioni e ἑm delle importazioni.
Perché si abbiam l’elasticità delle importazioni.
Perché si abbia un miglioramento della bilancia commerciale quando peggiora la ragione di scambio commerciale di un Paese che ha diminuito i prezzi delle proprie merci, il valore delle esportazioni deve aumentare più del valore delle importazioni.
Questo avviene se la somma delle due elasticità (exp e imp) è maggiore di 1.
Gli economisti neoclassici dicono che è una condizione facile da raggiungere.
In pratica, ad un deprezzamento delle ragioni di scambio del commercio internazionale o al deprezzamento del tasso di cambio reale fa sempre seguito un peggioramento della bilancia commerciale: effetto J, causato dalla bassa elasticità di prezzo che la domanda di import export ha nel breve periodo, per le rigidità contrattuali e le abitudini dei consumatori.
Nel breve periodo c’è solo il peggioramento della bilancia commerciale in quanto si manifesta solo l’effetto prezzo, mentre l’effetto quantità tende ad essere nullo: nella realtà i consumatori e i produttori reagiscono alle variazioni dei prezzi degli import exoport in tempi differenti rispetto alle variazioni dei loro prezzi e dalla circostanza che le quantità scambiate rimangono per un certo periodo immutate.
Nel lungo termine l’effetto quantità si manifesta con intensità crescente e aumenta le quantità esport e diminuisce le import.
Nel lungo periodo la bilancia commerciale migliora, ma non è detto che giunga al pareggio.
Alcune importazioni potrebbero mostrarsi rigide, come quelle di greggio o di energia (l’Italia importa energia elettrica di origine nucleare dalla Francia).
La condizione delle elasticità critiche può non realizzarsi in un Paese, come l’Italia carente di materie prime, ma trasformatore.
Qui la svalutazione del cambio rende più costosa l’importazione di materie prime e genera un aumento dei prezzi interni.
Questo genera un’inflazione specifica, inflazione da costi.
L’aumento di moneta in circolazione genera inflazione solo se la conseguente diminuzione dei tassi di interessi non riesce a produrre un incremento dei redditi a causa di aspettative imprenditoriali negative, che scoraggino un investimento in capitale fisico aggiuntivo.
In seguito all’incremento dei prezzi delle materie prime, gli imprenditori hanno due possibilità: comprimere i profitti o aumentare i prezzi delle merci prodotte.
Se questo avviene per tutti i prezzi, aumenterà il livello generale dei prezzi e varrà di meno la moneta.
È probabile che si inneschi una reazione della classe operaia, che chieda un reintegro del valore monetario dei salari, in modo da conservare il valore dei salari reali, precedenti alla svalutazione del cambio, che ha indotto l’aumento delle materie prime.
Qui l’inflazione non è indotta da un incremento della quantità di moneta in circolazione, ma dall’incremento dei prezzi delle materie prime e dal processo inflazionistico da conflitto sociale.
Qui può avviarsi la spirale inflazionistica: la prima svalutazione del cambio determina il primo aumento del livello generale dei prezzi; questo determina la reazione degli operai per vedere ricostituito il salario reale precedente alla prima svalutazione; questo determina un ulteriore deficit della bilancia dei pagamenti; questo determina ulteriore svalutazione del cambio; il processo ricomincia dall’inizio.
Questo è quello che è accaduto in Inghilterra e Italia nel 1970, ma non accadde fra le due guerre.
Nelle Nazioni con il bilancio in surplus, la rivalutazione del cambio rende le merci prodotte troppo care per gli altri Paese e determina una diminuzione delle esportazioni, che determina una diminuzione del fatturato per le imprese coinvolte che licenzieranno lavoratori, determinerà disoccupazione.
Esiste un’altra critica alla svalutazione del cambio secondo cui il potere di mercato di un marchio dipende dagli investimenti pubblicitari, dalla qualità dei beni prodotti, dall’assistenza post vendita, dalla rete di vendita, dallo status simbol che il possesso di un determinato bene significa in una comunità politica.
Per queste ragioni la rigidità delle import e esport può essere alta, ovvero le elasticità basse e non raggiungere la condizione delle elasticità critiche, anche nel medio periodo e non solo nel breve, come mostra l’effetto J.
Secondo gli studi dell’economista Alexander, piuttosto che alla condizione delle elasticità critiche, occorre guardare al fenomeno economico dell’assorbimento.
Alexander parte dall’identità contabile in caso di equilibrio macroeconomico in un’economia aperta: Y=C+I+G+X-M Dove Y è il reddito nazionale, C la spesa per i consumi, I la spesa per investimenti, G il saldo del bilancio pubblico, X le esport delle merci, M le import delle merci.
Secondo Alexander l’assorbimento è C+I+G=A (assorbimento= domanda globale interna).
Possiamo riscrivere: Y=A+X-M.
B=X-M, allora Y=A+B da cui: B=Y–A.
Alexander dimostra che il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti è la contropartita della differenza tra reddito nazionale (Y) e domanda globale.
L’assorbimento è dato da C + I + G, che altro non sono che la domanda globale interna di un Paese.
Un saldo attivo (surplus) delle partite correnti della bilancia dei pagamenti significa che la collettività produce più di quello che domanda nel complesso tra settore privato e pubblico, cioè: B > Y–A.
Viceversa un saldo negativo (deficit) delle partite correnti della bilancia dei pagamenti significa che la collettività produce meno di quello che domanda nel complesso tra settore privato e pubblico, cioè: B < Y–A.
Secondo Alexander, per comprendere se la svalutazione del cambio di una valuta in un regime a cambi flessibili determina o meno un riequilibrio della bilancia dei pagamenti, non sono importanti le elasticità delle import export, ma le variabili interne del Paese interessato alla svalutazione del cambio della divisa e se il sistema è in piena occupazione o meno.
Secondo Alexander, se il sistema economico non è in piena occupazione la svalutazione del cambio farà aumentare le esportazioni, se invece è in piena occupazione, la svalutazione del tasso di cambio farà aumentare le esportazioni solo se contemporaneamente si ridurranno o i consumi, o gli investimenti o la spesa pubblica.
La svalutazione del cambio quindi va accompagnata da una politica fiscale o monetaria restrittiva.
Gli esponenti della Nuova Scuola di Cambridge prescrivono di ridurre la spesa pubblica finanziata in disavanzo e di diminuire il disavanzo pubblico per ridurre il deficit della bilancia dei pagamenti e accompagnare il riequilibrio tramite la svalutazione del cambio.
Dicono che per riportare al pareggio la bilancia dei pagamenti si deve fare una politica fiscale restrittiva.
Altri sostengono che una politica monetaria restrittiva riduce l’assorbimento interno.
Una politica monetaria restrittiva può però generare una diminuzione del reddito e dell’occupazione e quindi una diminuzione della domanda globale interna e della produzione.
È preferibile quanto proposto dalla Nuova Scuola di Cambridge, che è un ulteriore critica alle politiche di deficit spending.
Il difetto fondamentale del sistema di cambi flessibili è l’incertezza che crea presso gli operatori economici nel settore import export.
L’aspettativa matematica condizionata è l’aspettativa matematica soggetta a un ben specificato insieme di informazioni:
dove I è l’insieme di informazioni utilizzato da cui dipende la distribuzione di probabilità.
La completa flessibilità dei cambi ingenera negli operatori internazionali incertezza nei confronti dei futuri cambi e della convenienza del commercio internazionale.
Gli operatori possono coprirsi sui mercati dei cambi con operazioni a termine, cioè possono fissare oggi un prezzo d’acquisto della valuta che decideranno di acquistare o meno in una certa data futura, ma si tratta di operazione costose la cui rischiosità aumenta all’aumentare dell’instabilità politica internazionale.
E’ il quadro che si delineò durante le due guerre, in cui i continui interventi degli Stati nazionali, anche sui cambi e le politiche economiche mercantiliste e protezioniste portò all’autarchia.
Le previsioni di Keynes si realizzarono.
Una Nazione per attuare una politica protezionista può svalutare il cambio, agendo direttamente sui livelli del commercio internazionale, ma ci sono altri strumenti di politica economica valutaria che incidono direttamente sui movimenti di valuta e determinano un controllo dei cambi dai Governi.
Si parla di regime di cambi controllati.
Gli strumenti di politica valutaria: operazioni di vendita e acquisto di valuta (nazionale) della BC di uno Stato federale o di un’Unione economica sui mercati valutari volti a determinare il livello del cambio.
Questi interventi possono essere aggressivi (volti a determinare una svalutazione del cambio per fini di politica commerciale a danno dei Paesi vicini, come accadde durante le due guerre) oppure cooperativi (con coordinamento delle BC di Paesi vicini e con interscambio commerciale e volti a mantenere stabile un certo cambio concordato).
Qui non siamo più in un sistema di cambi flessibili.
Autorizzazioni amministrative (della BC) a cui sottoporre gli importatori.
Questo serve alle autorità di politica economica per selezionare i beni esteri che è necessario importare e negare l’autorizzazione amministrativa per quelle importazioni ritenute non strategiche.
Contingentamenti valutari agli importatori; Divieto o limitazione di esportazioni di capitali o di acquisto di obbligazioni estere; Controllo sulle operazioni valutarie delle banche, obbligo di versare presso la BC la valuta estera in cambio di valuta nazionale, serve ad aumentare la valuta di riserva di una BC.
Baratto internazionale o compensazioni mercantili, per l’importazione di una determinata merce solo in cambio di un equivalente esportazione; Divieto di fuoriuscita di valuta concordato tra due Paesi.
Esiste una cassa di compensazioni tra due Paesi che regola il commercio internazionale tra quei due e impedisce la fuoriuscita di valuta.
Cambi multipli.
Ha lo stesso scopo delle autorizzazioni amministrative ma agisce anche sul prezzo.
Ad es si attua un cambio basso per l’acquisto di tecnologia straniera utile ed un cambio alto per i beni di lusso.
Gli USA furono sempre più isolazionisti.
L’Impero britannico concentrò l’interscambio commerciale al suo interno, idem la Francia.
Le estensioni commerciali di entrambi consentirono di avere un forte interscambio internazionale.
L’Italia, che aveva intrattenuto ottimi rapporti con l’Impero britannico prima, modificò le sue relazioni internazionali, in seguito alle sanzioni imposte dalla comunità internazionale per l’invasione dell’Etiopia.
Il regime fascista, avendo il controllo di tutta la stampa, non fece conoscere al popolo italiano la gravità degli atti compiuti e reagì con una politica autarchica in base alla quale una nazione deve essere in grado di produrre autonomamente tutto ciò di cui ha bisogno.
L’Italia poté perseguire l’autarchia solo perché le sanzioni non riguardarono il petrolio ed il carbone, essenziali all’industria italiana, e che la Germania nazista non rispettò il blocco.
Temendo un avvicinamento dell’Italia alla Germania le sanzioni furono revocate dopo sette mesi, ma gli effetti politici ed economici sull’Italia proseguirono.
Lo Stato italiano aveva salvato dal fallimento le imprese e le banche italiane grazie all’Iri, Istituto per la ricostruzione italiana, e la statalizzazione dell’economia italiana fu dovuta più a quel episodio, che all’autarchia.