
Relazioni e politiche economiche internazionali dal 1975 a oggi
Keynes ne “La fine del laissez-faire” (1926), osserva che il liberismo economico aveva potuto trionfare per l’assenza di un pensiero economico coerente di valore, e scrive: i principi del laissez-faire hanno potuto far breccia nelle menti dei filosofi e delle masse grazie alla qualità scadente delle alternative – il protezionismo e il socialismo di Marx.
Queste dottrine contraddicono la presunzione generale in favore del laissez-faire, e hanno debolezza logica.
Alla fine della seconda guerra mondiale fu chiaro che il comunismo sarebbe durato di più del nazismo.
Occorre far riferimento all’inconsistenza economica dello strumento alternativo al mercato, che fu utilizzato nei regimi comunisti: l’economia pianificata.
L’economia di ispirazione marxista doveva rinunciare al mercato e alla libera iniziativa, aspetti tipici della classe borghese, nemica dei proletari, che con la rivoluzione marxista andarono al potere.
Essa doveva rifiutare il mercato, doveva rinunciare alla moneta, alla Banca e ai prezzi.
La politica economica marxista fu l’economia pianificata: un sistema economico che non utilizza il mercato, né i prezzi, né la moneta, è un modello di gestione del sistema economico in cui è lo Stato a pianificare l’allocazione delle risorse tra consumo attuale e investimento per la produzione futura, senza alcun ruolo della libera iniziativa dei cittadini.
Le autorità economiche dei paesi comunisti sovietici elaboravano un piano quinquennale.
Questa tavola macroeconomica era la sommatoria ponderata delle tavole input–output che pianificavano ciascun settore industriale e, a livello microeconomico, ciascuna industria di un settore industriale, stabilendo a priori le tecniche produttive da utilizzare, i lavoratori da impiegare, l’energia necessaria e le materie prime per la produzione.
Il piano quinquennale determinava anche la distribuzione dell’output tra i consumatori in base ai suoi obiettivi.
Vantaggi tavola input–output rispetto al governo macroeconomico di un’economia di mercato, nel breve termine: Lo Stato ha una visione ed un controllo globale dell’economia; può dirigere le risorse nazionali in base agli specifici obiettivi del Paese e destinare risorse verso gli investimenti produttivi; impedisce la disoccupazione: la piena occupazione è automatica.
Si pone invece un problema di allocazione ottima delle risorse, di produttività del lavoro, di rispetto della dignità delle persone e delle aspettative dei cittadini, sia in termini di lavoro da svolgere e di consumi da effettuare.
Poi ancora genera elevati tassi di crescita; non esiste il ciclo economico e fasi depressive, caratteristica tipica dell’economia di mercato; non crea squilibri sociali.
Limiti del piano quinquennale e della tavola input–output, che sono maggiori della politica economica del sistema di libero mercato: elaborare un piano economico quinquennale senza errori è impossibile perché occorre raccogliere le informazioni necessarie alla pianificazione: il costo da amministrare per la raccolta, l’elaborazione, elaborare il processo decisionale migliore, la politica economica da attuare.
Manca un sistema di prezzi; non esistendo un mercato e la concorrenza è impossibile giudicare la produttività di due tecniche produttive che utilizzano input diversi e/o processi produttivi diversi, se non c’è modo di determinare il valore di tali input.
Non possono esistere piani di incentivazione validi: una sovrapproduzione è un errore in un piano quinquennale, perché non si possono eccedere gli output previsti senza input maggiori, che sarebbero sottratti alle necessità, previste dal piano, di altri settori produttivi.
La mancanza della proprietà privata e della libera iniziativa economica limita l’incentivo a nuove iniziative economiche.
Occorre riflettere sull’assenza nell’economia pianificata di una BC e sull’assenza del moltiplicatore dei depositi bancari.
I socialisti erano fuori dal sistema di relazioni internazionali che faceva capo al Fondo Monetario.
In politica economica commerciale internazionale queste nazioni si ispiravano al bilateralismo.
Mentre può avere senso, nella guerra fredda, che il bilateralismo fosse applicato negli scambi con le nazioni ad economia di mercato, per evitare che una potenza capitalistica avesse un surplus commerciale con un Paese di area comunista, va chiarito meglio perché tale prudenza era usata dai Paesi comunisti anche tra di loro.
Il bilateralismo è avere la bilancia degli scambi in pareggio con ciascun altro Paese preso singolarmente.
Un sistema del genere è possibile solo quando il commercio internazionale è sotto controllo statale e comporta la mancanza di iniziativa privata o l’assoluto controllo su di essa.
Questo era il caso dei Paesi comunisti dell’epoca: il commercio estero di questi Paesi era nelle mani dello Stato e le monete nazionali non erano convertibili.
Non si ha l’affermazione della moneta sovietica nell’area sotto la sua egemonia, come invece accadeva in occidente con il dollaro.
Dopo la seconda guerra mondiale l’Unione Sovietica e i Paesi dell’Eu dell’Est, eccetto la Jugoslavia del maresciallo Tito, avevano costituito il Comecon.
Fu un fallimento.
I Paesi dell’Eu dell’Est hanno evitato di realizzare anche il solo coordinamento tra i piani nazionali.
Mentre il commercio e l’economia occidentale progredivano, le condizioni economiche dell’Est peggiorarono.
Il blocco comunista entrò progressivamente in crisi.
Ascende al governo Gorbaciov che, rendendosi conto dei problemi della sua Nazione: cercò di riformare il sistema comunista dal centro, ristrutturando il sistema sovietico con un programma di riforme per combattere la corruzione e le inefficienze e preparare il paese all’economia di mercato;
rendere meno rigido il controllo sull’economia e sulla vita dei cittadini, concedendo libertà civili e religiose; Lasciare più libertà ai Paesi satellite.
Il suo piano di politica economica intendeva transitare il Paese dalla fallimentare economia pianificata a quella di mercato, senza diventare satelliti dell’avversario statunitense.
Il piano fallì: i Paesi satellite si rivoltarono contro l’URSS: Nel 1989 in Polonia nacque un governo formato non solo da comunisti; i comunisti delle Germania Est lasciarono il potere ai riformisti.
Il tentativo venne bloccato sia dai conservatori (che avrebbero preferito un conflitto nucleare prima che gli USA installassero lo scudo spaziale, sancendo la superiorità statunitense), sia dei progressisti, che volevano un passaggio immediato all’economia di mercato.
Due eventi segnarono la fine di Gorbaciov: 1989 Tedeschi abbattono il Muro di Berlino e riunificano la Germania: finiva anche la guerra fredda.
Nel 1991 i conservatori tentarono un colpo di stato e destituirono Gorbaciov.
Il colpo di stato fallì perché non ebbe l’appoggio dell’esercito e per la reazione popolare guidata dal radicale Eltsin.
Nel 1991 i presidenti delle repubbliche sovietiche sciolsero l’Unione Sovietica: nacque la Comunità di Stati Indipendenti (CSI) che respingeva il comunismo.
Negli stessi anni in cui avvenivano queste vicende politico economiche nel blocco sovietico, grossi problemi nelle relazioni economiche internazionali continuavano in occidente.
La fine della convertibilità del dollaro, la massa autonoma di miliardi di dollari che si trovavano nelle riserve bancarie o erano frutto della commercializzazione del petrolio, erano in cerca di speculazione e rendimenti sempre più alti, con l’acquisto di titoli del debito delle Nazioni occidentali.
Oltre all’instabilità determinata dai flussi speculativi, ulteriore instabilità era il passaggio dai cambi fissi del nuovo ordine monetario mondiale concordato a Bretton Woods a quelli flessibili, vigente dopo la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro USA.
Processo di finanziarizzazione dell’economia: miliardi di dollari vengono stampati per far fronte alle guerre che vedono impegnati gli USA durante la guerra fredda; questi dollari vengono accolti in tutte le nazioni occidentali, perché rappresentano la valuta di scambio internazionale e la valuta di riserva, data la parità aurea stabilita a Bretton; l’aumento delle riserve permette l’aumento della base monetaria mondiale da destinare al commercio internazionale; i dollari vengono dichiarati non convertibili (1971); i dollari rimangono la moneta degli scambi internazionali nonostante l’accordo sui diritti speciali di prelievo (valuta rappresentata da un paniere di valute); si ha inizialmente la svalutazione del dollaro e il riequilibrio della bilancia commerciale nell’occidente; poi acquistano sempre più importanza il reinvestimento delle riserve in dollari e dei proventi della vendita di petrolio in titoli del debito pubblico americano: questo mercato diventa autonomo rispetto alle decisioni delle autorità monetarie americane.
Due fenomeni: ampi movimenti speculativi dei capitali; differenze nei tassi di inflazione determinate dagli spostamenti di capitali; politica dei tassi di interesse per riequilibrare la bilancia dei pagamenti in caso di deficit della bilancia commerciale; politica dei cambi flessibili per evitare l’inflazione.
Supponiamo che i possessori di petrodollari decidano di comprare obbligazioni di un det Paese che, in quella congiuntura, erano l’investimento ritenuto dai mercati più sicuro e redditizio.
Con l’acquisto dei titoli di quel Paese, acquistano anche la valuta di quel Paese e cedono dollari (la valuta degli scambi internazionali).
Questo comporta le seguenti conseguenze sui mercati valutari: aumento della domanda della divisa di cui si domandano i titoli; aumento dell’offerta di dollari.
La valuta del paese interessato dagli acquisti si rivaluta.
In caso di cambi fissi o di impegno internazionale del Paese a non variare il cambio oltre una certa soglia, le autorità monetarie del Paese interessato alla rivalutazione sono obbligate ad intervenire vendendo la propria divisa e comprando dollari.
Vendendo la propria divisa si accresce la quantità di moneta in circolazione e, se il Paese è in piena occupazione, si crea inflazione.
L’alternativa è la rivalutazione della propria moneta, che riequilibra domanda e offerta delle due valute in questione.
Dopo la fine del sistema dei cambi fissi nato da Bretton Woods, per evitare inflazione, si ha un sistema di cambi flessibili.
Le variazioni dei cambi non furono utilizzate nella politica mercantilistica che caratterizzò il periodo tra le due guerre, ma in una cooperazione commerciale tra le economie occidentali, unite in funzione anticomunista.
Si iniziò ad assistere a collaborazioni tra le autorità centrali per intervenire sui cambi: sistema di cambi flessibili sporchi.
La flessibilità dei cambi genera negli operatori internazionali incertezza sui futuri cambi e incertezza sulla convenienza del commercio internazionale.
Gli operatori economici internazionali possono coprirsi sui mercati dei cambi con operazioni a termine, cioè possono fissare oggi un prezzo d’acquisto della valuta che decideranno di acquistare o meno in una certa data futura, ma sono operazioni costose e rischiose, la cui rischiosità aumenta all’aumentare dell’instabilità monetaria internazionale.
Intanto la storia dell’occidente cambiava con Reagan.
La sua politica economica interna fu caratterizzata da tre obiettivi: politica della domanda del bilancio espansiva tramite: riduzione della spesa pubblica con riduzione della spesa sociale, aumento della spesa militare per sconfiggere il comunismo: finanziamento delle spese militari, finanziamento delle organizzazioni anticomuniste clandestine nelle nazioni comuniste; riduzione delle imposte; deregulation; politica monetaria restrittiva.
Obiettivi della politica monetaria restrittiva statunitense: obiettivo interno di ridurre il tasso di inflazione, obiettivo esterno di rivalutare il dollaro.
La conseguenza è un’ascesa dei tassi di interesse americani che ha determinato un enorme richiesta di obbligazioni del tesoro americano; l’aumento della domanda di titoli denominati in dollari, ha aumentato la domanda di dollari e un forte apprezzamento del dollaro sui mercati valutari.
Con la rivalutazione del dollaro e l’aumento dei tassi di interesse, le Nazioni del terzo mondo, indebitate in dollari si trovarono in difficoltà sia per la rivalutazione del dollaro che per l’aumento dei tassi di interesse.
Il debito, contratto in dollari, aumentò per la rivalutazione del dollaro in termini delle valute nazionali dei Paesi indebitati.
Ancora una volta, la preoccupazione manifestata da Keynes, di non ripetere l’errore del Gold Standard, di far coincidere la moneta internazionale con la moneta nazionale dell’economia capitalista egemone, si mostrò fondata.
Nel 1985 si decise di effettuare politiche monetarie tese a far abbassare il valore del dollaro.
Mentre gli Usa passavano alla politica monetaria del dollaro forte di Reagan, le nazioni eu nel 1979 creano il Sistema monetario eu (Sme) per ridurre i margini di fluttuazione delle monete eu tra loro e favorire il commercio internazionale.
Dal dopoguerra in poi le sei Nazioni che avevano costituito la CEE, grazie al piano Marshall, alla politica commerciale favorevole accordata dagli USA, al recupero di produttività degli impianti industriali e alla reciproca convenienza nello scambio dei fattori produttivi (l’Italia forniva persone per le imprese degli altri cinque Paesi) avevano aumentato il proprio PIL e questo aveva aumentato gli scambi internazionali e i processi moltiplicativi.
Dato che il regime dei cambi flessibili era un ostacolo al processo di scambio internazionale tra questi Paesi e tra quelli dell’area eu, essi stabilirono con lo Sme di ridurre la fluttuazione reciproca tra le loro monete.
L’elemento centrale dello SME è l’ECU European Currency Unit, unità monetaria europea.
L’Ecu era una moneta fittizia, un’unità di misura interna ai Paesi aderenti allo SME, aveva un tasso di cambio con ciascuna moneta nazionale aderente al sistema.
Questo tasso era detto tasso centrale o corso centrale, perché era quello intorno al quale il tasso di cambio poteva fluttuare nelle percentuali stabilite.
Questo tasso centrale era stato fissato per ciascuna moneta con un accordo tra i Governi dei Paesi della Comunità Eu al momento dell’entrata in vigore dello SME.
Gli accordi prevedevano la possibilità di modificare il corso centrale concordato all’entrata in vigore degli accordi solo in base al raggiungimento di un nuovo accordo tra i Governi.
Ogni Nazione poteva far fluttuare il tasso di cambio della propria moneta del 2,25% al di sopra e al di sotto del tasso centrale.
Le BC rispetto a ciascuna altra divisa eu, che aveva aderito all’accordo.
Per alcuni Paesi, tra cui la Spagna, il Portogallo, l’Italia e l’Inghilterra, era stata prevista una banda di variazione del corso centrale più ampia, il 6% al di sopra e al di sotto, per un periodo transitorio.
Fuori di queste bande di oscillazione, le BC dei Paesi aderenti la cui valuta era sottoposta a processi di rivalutazione o svalutazione, erano obbligate ad intervenire sui mercati valutari, comprando e vendendo altre monete dei Paesi della CEE anziché dollari.
In realtà, almeno questo aspetto non era possibile da rispettare, dato il peso del dollaro nelle riserve valutarie di ogni BCE.
Il motivo per cui ad alcuni Paesi fu concessa una banda di oscillazione dal corso centrale più ampia rispetto ad altri aderenti, dipese dalla circostanza che queste nazioni erano state interessate dal fenomeno, inflazione da costi, aumento dei prezzi, aumento dei salari, aumento dei costi.
La spirale costi-inflazione aveva generato una spirale inflazionistica, che rendeva difficile poter mantenere una banda di oscillazione ristretta.
Il sistema funzionò fino all’unificazione tedesca.
Autorevoli economisti italiani espressero la loro contrarietà all’entrata dell’Italia nello Sme per ragioni “tecniche”.
Secondo questi lo Sme era prematuro per l’Italia, perché impediva il piano controllo della politica monetaria, privando l’Italia di uno strumento fondamentale per la gestione di eventuali crisi economiche.
Inoltre le produttività del lavoro tra l’Italia e la Germania erano troppo forti.
Nel 1989 a Parigi, nove giorni dopo lo smantellamento del Muro, si riunirono i leader dei dodici Paesi della Comunità eu.
Il vertice si conclude con un appoggio al governo tedesco Kohl, che presenta al Parlamento di Bonn un progetto in 10 punti per la riunificazione.
La CE avrebbe accettato la riunificazione della Germania, ma nel contesto di un’accelerazione del processo di integrazione del gigante tedesco: la Germania avrebbe dovuto rinunciare al marco e acconsentire la nascita della moneta unica.
La Germania realizzò l’unificazione politica nel 1990 con un tasso di cambio sbagliato 1marco occidentale=1marco orientale.
Era una scelta sbagliata, dettata dal pangermanesimo della BC tedesca.
Si ha l’innalzamento delle retribuzioni della ex Germania Orientale quasi al livello di quelle della ex Germania Occidentale, mentre la produttività del lavoro nel settore industriale della prima restava pari a ¼ della produttività della seconda.
Il cambio tra i due marchi (Germania dell’Est/Germania dell’Ovest) doveva essere fissato a 4 marchi orientali = 1 marco occidentale.
L’ondata di marchi occidentali di cui fu invasa la Germania dell’Est comportò un aumento del reddito monetario globale e una politica espansiva della domanda (visto che la produzione tedesca orientale non poteva sostenere i costi dei salari dei dipendenti dell’Est).
La politica dei redditi espansiva determinò pressioni inflazionistiche, a cui le autorità monetarie tedesche (che avevano sbagliato a stabilire il cambio) hanno reagito con una politica monetaria restrittiva.
Allo stesso modo di quanto aveva fatto Reagan negli USA, la politica monetaria restrittiva ha determinato un aumento dei tassi di interesse, che hanno diminuito
l’inflazione ma anche determinato un rallentamento dell’attività produttiva, la chiusura di importanti stabilimenti dell’Est, una diminuzione del reddito nazionale e un aumento della disoccupazione.
La bassa domanda tedesca ha determinato una diminuzione delle importazioni dagli altri Paesi eu e ha propagato la recessione negli altri Paesi della CEE.
Dal lato della bilancia dei pagamenti, gli elevati tassi di interesse tedeschi causarono un forte afflusso di capitali dall’estero verso la Germania riunita e speculazioni valutarie nei confronti delle altre Nazioni Eu e in particolare a quelli a moneta debole, come l’Italia.
Analoga operazione di attacco speculativo fu rivolta contro la sterlina inglese.
L’Inghilterra e l’Italia nel 1992 erano costrette ad uscire dallo SME.
Nel 1993 tutte le Nazioni aderenti allo SME decidevano di allargare la fascia di fluttuazione del 15% intorno al corso centrale concordato.
Per rientrare nello Sme, il governo italiano fu obbligato a una finanziaria di 93 mila miliardi di lire.
Nel frattempo si accelerava il piano di unificazione monetario.
Il problema tecnico è che gli accordi di Maastricht trascurarono importanti aspetti relativi al riequilibrio delle bilance dei pagamenti dei Paesi aderenti all’euro.
L’accordo di Maastricht nacque monco, senza considerare la gestione di politica economica interna all’unione monetaria dei riequilibri delle bilance dei pagamenti dei Paesi aderenti.
È stata violata la regola che gli squilibri della bilancia dei pagamenti debbano sempre essere temporanei e non sono state previste regole condivise di comportamento sia per la gestione di eventuali surplus eccessivi, che nel caso di deficit eccessivi della bilancia dei pagamenti dei Paesi aderenti all’Euro.
L’Italia, come molti altri Paesi eu, è vittima del surplus della bilancia dei pagamenti tedesca.
L’export commerciale tedesco non è ridistribuito nell’Ue e finisce con il provocare recessione nell’economia dei partner.
Le restanti regole sul rapporto tra deficit pubblico e PIL, debito pubblico e PIL, tasso medio d’inflazione e tasso di interesse di lungo termine, costringono gli altri Paesi eu a una ferrea austerità, che autoalimenta la spirale recessiva.
Il surplus della bilancia commerciale di una Nazione equivale ad una maggiore domanda internazionale della valuta adottata da quella stessa nazione.
Questa circostanza genera due squilibri: l’euro si rivaluta, nonostante i deficit commerciali della maggior parte dei Paesi dell’area euro.
Ciò comporta che il meccanismo di svalutazione della valuta e di riequilibro della bilancia dei pagamenti con la svalutazione non avviene per i Paesi in deficit, perché la moneta invece di svalutarsi si rivaluta, come se quei Paesi fossero in surplus; e poi il surplus della bilancia tedesca non comporta investimenti in tutta l’area euro, ma solo in Germania.
Occorre comprendere le ragioni di performance così diverse tra Paesi che hanno la stessa valuta.
In Germania il costo del lavoro industriale sul prodotto è sceso dal 78% del 1995 al 65% del 2010.
Nello stesso periodo, in Italia, il costo del lavoro industriale sul prodotto è sceso dal 68% al 66% e in Francia non è variato ed è rimasto al 68%.
I tedeschi hanno compreso che caduto il muro di Berlino (e il comunismo), non c’era più bisogno di lasciare alti i salari degli operai.
Così oggi in Germania il costo del lavoro corre velocemente verso i livelli giapponesi, dove il costo del lavoro industriale è il 50% del prodotto.
I bassi salari tedeschi sono parte della ragione del successo commerciale tedesco e della mancata trasmissione dell’avanzo commerciale al resto dell’area euro.
Si può leggere la crisi dei debiti sovrani sia come una crisi che dipende dalla mancanza di competitività e dall’irresponsabilità fiscale dei Paesi del Sud Eu, sia come una crisi collegata alla diversa produttività del lavoro e ai differenziali salariali che, data l’adesione alla moneta unica, non possono essere compensati da aggiustamenti nei tassi valutari reali, non esistendo più divise nazionali diverse.
Le due letture non sono incompatibili anzi, la maggior parte degli analisti ritiene che la crisi dei debiti sovrani eu dipenda da entrambe.
Le attuali regole eu sono severe sull’irresponsabilità fiscale, ma non prevedono regole di comportamento e penali per i surplus della bilancia dei pagamenti della Germania.
Per avere equilibrio e pace nel mondo occorre che i più bravi e ricchi lo siano per tutti.
Sappiano redistribuire la ricchezza che producono.
Altrimenti gli altri si difendono dalla superiorità del migliore.
L’atteggiamento tedesco non provoca solo problemi nei confronti dei Paesi che adottano l’euro, ma anche con gli Usa.
La stagnazione di una parte consistente dell’Eu non consente il riequilibrio della bilancia dei pagamenti tra USA e area eu nonostante la svalutazione del dollaro.
La svalutazione del dollaro è però una necessità irrinunciabile agli USA, nell’attuale situazione internazionale, per riequilibrare la bilancia dei pagamenti statunitense con un riequilibrio della bilancia commerciale statunitense.
C’è uno scontro in atto tra gli USA e l’egemonismo tedesco in Eu.
L’Ue oggi registra un pesante fallimento economico e l’euro, che nelle intenzioni dei suoi architetti avrebbe dovuto portare stabilità e coesione economica tra i Paesi eu e superare la questione del pangermanesimo, è in crisi.
Deng ebbe il grande merito di attuare una riforma profonda dell’economia pianificata, usando un linguaggio e metodi che non produssero l’immediata reazione dei maoisti tradizionalisti.
Deng Xiaoping non parlò mai di fallimento dell’economia pianificata, ma di perfezionamento del socialismo e della necessità di farlo diventare un “socialismo con caratteristiche cinesi”.
Deng pose in risalto l’idea che socialismo non significa povertà condivisa, ma ricchezza condivisa.
La giustificazione teorica che fornì per consentire l’apertura al mercato capitalistico fu: “Pianificazione e forze di mercato non sono l’essenziale differenza tra socialismo e capitalismo.
Economia pianificata non è la definizione di socialismo, perché c’è una pianificazione anche nel capitalismo; l’economia di mercato si attua anche nel socialismo.
Pianificazione e forze di mercato sono entrambe strumenti di controllo dell’attività economica.”.
Declassando l’economia pianificata a strumento di controllo dell’attività di mercato e non più essenza del marxismo e differenza dal capitalismo, apre le strade nella Cina alla libera iniziativa economica e al capitalismo.
Deng non presentava obiezioni a determinate politiche economiche per la sola ragione che erano simili a quelle attuate nelle nazioni capitaliste, l’importante che fossero condotte dal Partito comunista.
Deng fornì la base teorica e il supporto politico per consentire che avesse luogo una riforma economica, ma attese che le riforme venissero introdotte dai capi locali, spesso in violazione delle direttive del governo centrale, così ebbe un grande vantaggio tattico: se le riforme introdotte a livello locale riuscivano egli proteggeva i capi comunisti che le avevano introdotte ed esse erano estese ad aree sempre più ampie; se andavano male egli le disapprovava insieme al resto del partito.
Deng aveva sempre più alleati e dirigeva il partito comunista verso l’economia di mercato, senza che nessuno potesse accusarlo di condurre le riforme e intestargliene la paternità, che restava collegiale.
Deng applicò i principi della sussidiarietà, lasciando l’iniziativa e la responsabilità a livello locale e guidò il processo dal centro con una gestione macroeconomica tipica dell’economia del mercato e l’intervento del sistema bancario statale.
Fu dal basso che vennero promosse le altre due decisioni che porteranno la Cina ai vertici della produzione mondiale: le zone economiche speciali; l’adesione all’Organizzazione mondiale del commercio.
Fino a metà 2005 lo stock di riserve dei paesi emergenti era più basso di quello dei paesi sviluppati.
Poi avviene il sorpasso.
Da quel momento la curva schizza in alto e continua a crescere, salvo una breve flessione fra il 2008 e il 2009.
Sono i paesi emergenti a detenere il volume più alto di riserve.
La domanda di riserve detenute dai quattro Bric si impenna verticalmente fra il 2009 e 2011: nel 2000 le riserve cinesi erano poche centinaia di miliardi di dollari, ora sfiorano i 4.000 miliardi.
La paura della Grande Crisi ha fatto quasi raddoppiare le riserve di dollari detenute dai Bric.
I Bric si riempiono di dollari mentre gli USA aumentano la base monetaria di 1000 miliardi all’anno.
Lo squilibrio della bilancia dei pagamenti americana potrebbe determinare sfiducia nel dollaro e questo determinerebbe una crisi monetaria internazionale.
Comunque la Cina ha un dilemma simile a quello di Triffin: se vuole partecipare al commercio internazionale deve accettare dollari e avere riserve in dollari; se contribuisse a svalutare il dollaro svaluterebbe le proprie riserve.
Secondo lo studio del National Bureau of Economic Research, per evitare il una crisi del sistema, occorre una riforma del sistema nella quale le riserve della Cina entrano nel sistema mondiale internazionale.
Il dollaro resta la vera moneta di riserva e secondo l’economista Samuelson, la richiesta di dollari per il commercio internazionale permette agli Stati Uniti di mantenere un deficit commerciale persistente senza avere un deprezzamento della valuta o un riequilibrio dei flussi commerciali.
La finanziarizzazione dell’economia sottrae risorse agli investimenti in capitale fisico in tutto il mondo.
Al 2013 le riserve di dollari dalle autorità monetarie cinesi, dopo i surplus della bilancia dei pagamenti, sono 3660 miliardi di dollari.
La banca popolare cinese vuole una riforma dei pagamenti internazionali con una moneta unità di conto alternativa al dollari.