– modello anglosassone: Quando si è trattato di affrontare il tema delle privatizzazioni in Italia, i decisori di Politica economica hanno dovuto affrontare quale modello capitalista era più consono alla realtà italiana.
Il capitalismo è diverso per le modalità di finanziamento dell’impresa e per la possibilità degli imprenditori migliori di far crescere le dimensioni delle proprie aziende.
Le privatizzazioni sono servite a riflettere e confrontarsi su quale modello fosse il migliore e consono alla realtà italiana.
Nella prassi di politica economica, si sono confrontate due scuole che avevano due modi diversi di intendere le privatizzazioni e si sono trascurati altri modelli, fondati su un rapporto cooperativo tra banca e imprese, come in Germania e Giappone.
Per una scuola bisognata usare le privatizzazioni per favorire in Italia la nascita di public companies.
Questa tesi è stata sostenuta da quanti ritengono che, per tenere il passo con i mercati internazionali, il capitalismo italiano debba abbandonare la sua tradizionale dimensione familiare e aprirsi a nuovi azionisti e ad una gestione più manageriale delle imprese.
Non si trattava di vendere i vecchi feudi dei dirigenti di Stato alle grandi famiglie del capitalismo italiano, ma di trasformare queste imprese in public companies.
Il sistema economico italiano necessitava, secondo questa tesi, che si sviluppi maggiormente il mercato azionario italiano.
E’ augurabile, secondo questa scuola economica, un’evoluzione del sistema finanziario e di controllo delle imprese.
Condizioni: diffusione di azioni fra i dipendenti delle aziende per una gestione più facile dell’impresa: un dipendente di una grande impresa può diventarne azionista se trasforma il TFR in azioni; poi più partecipazione degli investitori istituzionali al capitale delle imprese quotate e più partecipazione loro al mercato dei capitali; poi più trasparenza del mercato azionario secondario, per il raggiungimento della quale occorrono nuovi strumenti di diffusione delle informazioni sulle società quotate e nuovi meccanismi di verifica interni ed esterni all’impresa; poi la creazione di intermediari che raccolgano informazione, coordinamento degli azionisti, valutazione delle imprese, raccolta dei capitali: queste attività hanno economie di scala e i costi di queste attività sarebbero troppo elevati per i singoli agenti.
Secondo questi economisti i modelli di riferimento economico sono le istituzioni della riallocazione proprietaria tipici del Regno Unito e degli USA.
In questi Paesi la crescita industriale è determinata dall’esistenza di un mercato dei capitali molto attivo, in cui molte azioni vengono trattate quotidianamente sul mercato secondario e nuove iniziative economiche vengono finanziate sul mercato primario.
La proprietà delle grandi aziende, distribuita tra molte persone, non implica il controllo sugli amministratori dell’azienda, ma la sola conservazione dei diritti patrimoniali: la riscossione dei dividendi e i guadagni in conto capitale: il potere di controllo si riduce alla vendita o acquisto delle azioni, mentre il controllo effettivo sulle imprese è esercitato dai manager.
I fautori del capitalismo a proprietà diffusa amano descrivere questo finanziamento delle imprese industriali come “il migliore dei mondi possibili”, una fase più avanzata del capitalismo.
Gli attuali istituti della riallocazione sono il risultato dei processi storici delle economie di quei Paesi.
Negli Stati Uniti la nascita e lo sviluppo dell’attuale sistema è legato alle enormi dimensioni del Paese.
Fu nelle due successive ondate di costruzioni delle ferrovie, la prima nel 1840-1870, la seconda 1870-1900, che le dimensioni del sistema ferroviario imposero la necessità di raccogliere capitali aggiuntivi rispetto a quelli posseduti dalle famiglie fondatrici delle imprese.
Se si considera che, una volta completato il sistema ferroviario statunitense era pari a circa 10 volte quello inglese, si comprende perché la raccolta presso agricoltori, commercianti e piccoli industriali non fu sufficiente a finanziare tale costruzione.
A fine 1850 alcune imprese di importazione e di esportazione di New York si specializzarono nella vendita di obbligazioni ferroviarie, per divenire le prime banche d’affari statunitensi.
Poi si ha la concentrazione e istituzionalizzazione del mercato americano dei capitali a New York.
Lo sviluppo del sistema ferroviario statunitense generò una classe manageriale con alte capacità tecniche, adatte a dirigere le nascenti imprese di grandi dimensioni, e a gestire la complessità dei sistemi ferroviari.
Occorre, in merito all’organizzazione dei mercati borsistici secondari, tenere sempre presente un insegnamento di Keynes: il mercato secondario borsistico è “Una guerra di astuzia, a chi meglio indovina la base della valutazione convenzionale (azioni o obbligazioni) fra qualche mese, invece del rendimento prospettico dell’investimento in un lungo periodo”.
Secondo Keynes, lo scopo privato dei più esperti investitori di oggi è to beat the gun (scattare prima del via), riuscire a passare al prossimo la moneta cattiva o svalutata.
Secondo Keynes l’andamento dei mercati borsistici non ha relazione con l’andamento dell’economia reale.
La Borsa (mercato secondario) è il regno della speculazione: è il posto in cui si danno le fregature agli altri, si scommette sul valore che le azioni avranno qualche ora dopo.
Lo sviluppo economico dipende invece dall’innovazione tecnologica, dalla capacità di trasformare le invenzioni e le innovazioni in nuovi prodotti e processi: dipende dai nuovi investimenti in capitale fisico aggiuntivo.
La situazione economica si aggrava, secondo Keynes, quando i soldi sono tutti impiegati sui mercati borsistici secondari per le scommesse quotidiane e nessuno può più investire nell’economia reale.
Secondo Keynes bisognerebbe introdurre una forte imposta di trasferimento per tutte le negoziazioni per mitigare il predominio della speculazione sull’intraprendenza negli Stati Uniti.
Altro rimedio potrebbe essere di rendere un investimento permanente e indissolubile come il matrimonio, salvo che per causa di morte.
In tal modo, si obbligherebbe l’investitore ad orientare la sua mente solo verso le prospettive a lungo termine.
A queste critiche sulla sterilità per la crescita economica dei mercati secondari borsistici, si aggiungono critiche sulla superiorità del modello del capitale diffuso rispetto agli alternativi modelli capitalistici: capitalismo familiare; capitalismo tedesco; capitalismo giapponese.
– Capitalismo familiare italiano: Il capitalismo italiano, simile a quello giapponese, ha una forte componente
familiare.
Le famiglie hanno un valore elevato di capitale sociale delle imprese: a differenza degli anglosassoni, gli italiani detengono le azioni delle società che controllano.
Qui il possesso azionario è la forma di controllo della società e non un investimento finanziario, o metodo di finanziamento dell’impresa.
Molti economisti sono convinti che l’esercizio dei diritti proprietari garantisca migliore uso dei beni.
Secondo loro in un’impresa con molti azionisti, ciascuno è troppo piccolo per avere un incentivo ad esercitare supervisione sul management.
Questa circostanza favorisce asimmetria informativa e non garantisce un adeguato controllo del management dagli azionisti: per ciascuno di essi il costo della supervisione è maggiore del beneficio che ne possono trarre.
L’asimmetria informativa sulla conoscenza dei provvedimenti adottati dal Governo è un problema analogo.
Il trasferimento del controllo da un gruppo di azionisti ad un altro non è quel processo così semplice ed automatico, descritto dagli estimatori di questo modello di capitalismo.
Quando sul mercato secondario si diffonde la convinzione, durante l’offerta di acquisizione, che essa avrà un esito positivo, l’azionista ha un beneficio nel ritardare la vendita delle azioni ed attendere l’incremento di valore successivo all’acquisizione.
Così, però, lo scalatore dovrebbe rinunciare a parte del profitto e pagare agli azionisti il valore atteso delle azioni con la nuova gestione.
Questi sono alcuni esempi dei problemi che di un mercato borsistico, dove le aspettative di rendimento o di perdita dall’acquisto e la vendita di azioni, giustificate o meno da un efficiente flusso informativo sullo stato economico delle imprese, possono determinare esiti inefficienti.
Occorre sottolineare che tra i due sistemi, anglosassone e italiano, è diversa la concezione dell’impresa: l’impresa statunitense è un modo per esercitare il potere di monopolio e sfruttare le economie di scala, risolvere i problemi sulle relazioni di lungo periodo in senso verticale fra fornitore e acquirente; mentre l’economia italiana ha sperimentato un modello di organizzazione industriale diversa, i distretti industriali e la produzione flessibile (Benetton).
Queste imprese hanno coniugato le convenienze della concentrazione nella finanza, ricerca, progettazione, pubblicità e controllo delle reti distributive, con la produzione flessibile per le attività di manifattura in senso stretto.
Il controllo delle aziende rimane in mano alle famiglie.
Anche le altre grandi imprese italiane, che hanno il modello organizzativo di produzione più accentrato, sono controllate stabilmente da alcune famiglie.
Il tipo di controllo sull’azienda garantito dal capitalismo familiare consente ai gruppi privati italiani di effettuare piani di ristrutturazione e di sviluppo su un orizzonte temporale più ampio, rispetto alle possibilità consentite ai management statunitensi ed anglosassoni, che devono presentare risultati positivi alla presentazione dei bilanci e dei resoconti trimestrali in base ai quali gli operatori di borsa ed il pubblico dei piccoli risparmiatori decide le proprie operazioni di acquisto e di vendita dei titoli azionari.
Come in tutti i problemi di ottimizzazione intertemporale in contesto dinamico la scelta più economica nel breve periodo è la più costosa nel lungo, e scelte miopi possono portare a sconfitte sui mercati internazionali.
Rivelano i critici delle public companies, il sistema anglosassone può essere più debole del capitalismo familiare perché genera una pressione verso la massimizzazione del profitto di breve periodo, col rischio di trascurare le strategie di lungo periodo.
Il problema del manager di una public company si presenta con un orizzonte temporale definito, e sottoposto a vincoli di reddito, tecnologici e politico legislativi.
Nel caso del capitalismo familiare l’orizzonte temporale della proprietà si espande e diviene infinito.
Il problema è identico al precedente ma l’orizzonte temporale è più ampio e diviene infinito perché gli eredi entrano nel problema di massimizzazione.
Le imprese familiari, a differenza delle società a capitale diffuso, hanno una forte dedizione dalla proprietà, disposta a grandi sacrifici, pur di salvaguardare le esigenze di sviluppo delle imprese, perché la proprietà si può trasmettere ereditariamente.
L’orizzonte temporale delle decisioni diventa infinito perché le generazioni future (eredi) hanno un peso nel problema di ottimizzazione del valore dell’impresa.
Il capitalismo familiare poi non ha problemi sulla separazione tra la proprietà dell’impresa, in mano agli azionisti, e il suo controllo, in mano al dirigente, propri del modello dell’azionariato diffuso.
Il manager, in quel sistema, può ottenere benefici dell’azionista.
Nel mercato borsistico possono verificarsi fenomeni di selezione avversa: “L’azione cattiva caccia dal mercato l’azione buona”.
Dato l’efficiente meccanismo di controllo, le imprese del capitalismo familiare registrano un ROI elevato e beneficiano dall’indebitamento e amano finanziarsi presso le banche.
Qui un problema può essere l’efficienza della cultura bancaria degli affidamenti.
Sono problemi complessi, ma non come quelli che concernono il funzionamento di un mercato borsistico.
I critici del capitalismo a proprietà diffusa evidenziano un’altra ragione che invita alla riflessione sull’opportunità di scegliere la borsa quale principale o unico strumento di raccolta del capitale di rischio.
Dato che la PMI è diffusa nel nostro Paese ed è l’unica forma organizzativa industriale capace di creare occupazione, la messa in vendita delle azioni delle grandi imprese pubbliche italiane è dipesa dalla capacità di attrarre finanziamenti esteri sotto forma di capitale di rischio.
Attualmente non esistono limiti alla libertà dei movimenti di capitale e i fenomeni di instabilità si propagano velocemente tra i sistemi economi dei Paesi, talvolta anche in contrasto con l’andamento dei fondamentali delle economie interessate ai fenomeni di squilibrio finanziario.
Il Governatore della Banca d’Italia dell’epoca, avvisava nel 1996: “I depositi transnazionali attualmente ammontano a
8.000 miliardi di dollari, più del prodotto lordo degli USA, una volta e mezzo il valore delle esportazioni mondiali di
merci.
La loro dinamica è fuori dal controllo delle BC; la loro velocità di circolazione viene esaltata dal ricorso ai prodotti derivati.
I problemi sulla stabilità degli intermediari e dei mercati vengono analizzati nel Comitato di Basilea.” Data la libertà di circolazione e la consistenza dei depositi transnazionali, le BC oggi non possono usare i metodi tradizionali e le tecniche di controllo note per stabilizzare il sistema, se non agendo tutte in concerto.
Se si tiene conto che, a fronte di questa libertà di circolazione, sono ancora rilevanti le differenze tra le politiche economiche dei paesi, che esistono squilibri rilevanti tra il settore pubblico e privato nelle economie nazionali, e tra le bilance dei pagamenti dei Paesi, si comprende la ragione degli spostamenti di fondi cui si assiste quotidianamente.
I fondi si muovono alla continua ricerca di condizioni d’impiego più remunerative.
Altra critica nei confronti dell’azionariato diffuso: l’esistenza di una tale massa di denaro non impiegata in investimenti reali, ma sol in impieghi di portafoglio, pone domande sulla validità di un sistema economico che disincentiva gli operatori ad impiegare le proprie ricchezze nell’economica reale.
Difetti del capitalismo familiare: se ne può assumere la guida indipendentemente dal possesso di una cultura aziendale sufficiente, date le differenze esistenti tra gli uomini è un errore ritenere che il figlio di un grande imprenditore possa fare altrettanto bene; poi le imprese familiari hanno poca distinzione dei ruoli di azionista, amministratore, carica quest’ultima che necessita di esperienza e doti umane non trasmissibili ereditariamente; poi la prassi delle grandi famiglie del capitalismo italiano di finanziarsi presso il sistema bancario è un limite alla crescita dimensionale, visti i meccanismi di affidamento legati alle garanzie immobiliari e al patrimonio.
– Capitalismo tedesco: in Germania, il sistema di gestione e di controllo delle società di capitali è diverso dal sistema di gestione e controllo generalmente attuato nei sistemi economici occidentali.
In questo Paese in base ad una legge del 1937, ogni società di capitali deve costituire un consiglio di sorveglianza (auftichtsrat) che assume una posizione intermedia tra l’assemblea degli azionisti e il consiglio di amministrazione (vorstarui).
Lo auftichtsrat controlla l’attività svolta dal cda.
Nelle Società di Capitali con più di 2000 dipendenti, il potere di nomina degli amministratori passa dall’assemblea degli azionisti all’organo di sorveglianza.
Lo auftichtsrat: nomina degli amministratori che durano in carica 5 anni; determina gli emolumenti loro spettanti; revocano i consiglieri per gravi ragioni indicate dalla legge, quali l’incapacità e la mozione di sfiducia votata dall’assemblea generale della società, motivata oggettivamente.
La sfiducia di un nuovo azionista controllore è motivazione valida.
Con una legge del 1952 lo auftichtsrat non è più organo di rappresentanza degli azionisti, ma è organo di tutela di tutti coloro che appartengono all’impresa (azionisti, lavoratori, dirigenti).
La legge del 1952 e la legge sulle SPA del 1965 hanno stabilito che tutte le spa e le srl o le cooperative con più di 500 dipendenti abbiano un terzo dei componenti dello auftichtsrat, nominato dai lavoratori.
Per le società con oltre 2000 dipendenti, tale percentuale sale al 50%.
Non esiste sovrapposizione tra i due organi ma un flusso permanente di informazioni obbligatorie dal cda verso l’organo controllore.
Il controllo è reale sull’operato degli amministratori a differenza di ciò che accade in Italia, dove il controllo dal collegio sindacale è solo formale sulla contabilità e non di merito sull’attività.
Le banche, nel sistema capitalista tedesco, benché non abbiano partecipazioni rilevanti nelle imprese, esercitano un efficace controllo su tutte le imprese industriali, grazie all’istituto della delega (depotstmmrecht) che consente alle Banche di esercitare i diritti di voto dei piccoli azionisti.
Nella legge della Repubblica Federale Tedesca, le Banche tedesche sono autorizzate ad esercitare i diritti di voto delle partecipazioni depositate.
I piccoli azionisti devono concedere tale potere con delega da rinnovare ogni 15 mesi.
La delega può essere revocata in ogni momento.
Le Banche tedesche devono inviare ai clienti detentori di una quota di minoranza, in occasione delle assemblee degli azionisti, le analisi sull’andamento della gestione delle imprese ed una serie di consigli di voto.
Qualora il cliente non manifesti una volontà diversa da quella espressa dalla banca vige un principio di silenzio assenso per cui la banca esprimerà il voto indicato nelle raccomandazioni.
In caso contrario la Banca si adeguerà alla volontà del cliente.
La legge garantisce l’autonomia dei due organi: i membri del auftichtsrat non possono appartenere al cda o avere incarichi dirigenziali nell’impresa; idem i due consigli in questione anche di società distinte, qualora una controlli l’altra.
Grazie a queste previsioni di legge le banche tedesche riescono ad imporre quasi sempre propri uomini nell’auftichtsrat, il che, dato l’accesso alle informazioni riservate della gestione dell’azienda a cui questo accede, consente alle banche una conoscenza della situazione finanziaria dell’impresa.
Data la quasi assenza delle asimmetrie informative, le banche tedesche possono effettuare una migliore valutazione del merito del credito.
Sono in possesso di tutte le informazioni necessarie per distinguere un problema di scarsa liquidità da un problema di gestione economica inefficiente.
Grazie ai propri uomini nei Consigli di Controllo e al flusso informativo che ne deriva, le Banche tedesche riescono ad evitare i problemi che nascono dalla diffusione della proprietà e riescono ad esercitare un controllo più assiduo ed incisivo di quello esercitato dagli azionisti sul mercato azionario e dalle Banche in Italia.
Il meccanismo della delega consente di associare i vantaggi del minor costo del finanziamento tramite la proprietà diffusa, con i vantaggi derivanti da una concentrazione del controllo.
La banca tedesca si sostituisce ai piccoli azionisti, che non hanno abbastanza capacità conoscitiva tecnica e incentivi, nell’esercizio del controllo dell’impresa.
Tutto il sistema legislativo, compresa la presenza di rappresentanti di operai e dirigenti nel consiglio di controllo, è finalizzato a tutelare la produzione e gli investimenti diretti piuttosto che quelli di portafoglio.
Non si assiste, a differenza del mondo anglosassone, alla diffusione di notizie false per indurre nel panico gli azionisti e avvantaggiarsi di un ribasso od un rialzo ingiustificato dei corsi delle azioni, né a scalate attuate per dismettere le imprese per il tornaconto di cassa dell’operazione.
Il sistema capitalista tedesco è più equo dal punto di vista redistributivo.
Nei momenti di congiuntura economica sfavorevoli, le imprese di questi Paesi non licenziano i propri lavoratori, come negli USA, né i lavoratori vengono estromessi dai processi produttivi con ammortizzatori sociali, come in Italia, facendo ricadere sulla collettività le perdite delle imprese.
In Germania, e in Giappone, si preferisce sopportare una diminuzione dei profitti.
Dato il vincolo a non licenziare, i dirigenti delle imprese tedesche sono incentivati ad affrontare subito il problema di migliorare la qualità e la differenziazione dei prodotti e sono spinti a migliorare i processi produttivi.
Delle due possibili alternative (licenziare impiegati e operai o farli lavorare in modo più produttivo), questi sistemi capitalistici hanno deciso, con regole istituzionali, di consentire ai dirigenti di perseguire solo la seconda strada.
Anche il sistema tedesco può presentare solo un genere di limiti: omissioni di controllo dei dirigenti rappresentanti delle banche nei confronti degli amministratori delle aziende, in cambio di favori personali.
La corruzione è evitata per la natura commerciale e privata delle banche tedesche, sebbene partecipate dal Tesoro federale.
Nel caso di crisi economica dell’impresa, il flusso di informazioni riservate al quale le banche commerciali possono accedere, consente loro di intervenire prima che la situazione diventi patologica.
Questo genera un doppio vantaggio per la banca: impedisce: di vedere diminuito il valore delle partecipazioni dirette della banca nel capitale sociale dell’impresa; di vedere diminuito il valore delle azioni in possesso dei tanti piccoli clienti della banca che si sono affidati alla supervisione dell’Istituto di Credito per la tutela del loro investimento; poi permette alla banca di lucrare le commissioni sulle operazioni di riallocazione dell’impresa.
Il sistema economico tedesco è ispirato da tre idee guida: rispettare l’uomo nell’organizzazione aziendale; far cooperare capitale e lavoro, nel rispetto della proprietà privata e della libera iniziativa economica in un mercato libero, dando un ruolo ai rappresentanti dei lavoratori nel Consiglio di Sorveglianza; far cooperare banche e imprese, facilitando il controllo dei finanziatori e il loro intervento di fronte alle crisi.
Il sistema capitalistico tedesco è da tenere in considerazione e da studiare perché è di successo mondiale e tra i più cooperativi e anticonflittuali che esistano in merito ai rapporti tra Banche e imprese e tra industriali e lavoratori.
– Capitalismo giapponese: la comunità dei lavoratori è riconosciuta come parte integrante dell’impresa.
Pensano che la teoria neoclassica è incapace di spiegare del tutto il comportamento delle imprese giapponesi.
La teoria dell’impresa neoclassica prevede che, data la tecnologia disponibile, il costo del lavoro (cioè il salario reale disponibile sul mercato del lavoro), considerate le produttività marginali del lavoro e del capitale, l’imprenditore sceglie il livello di occupazione e la politica degli investimenti da attuare per ottenere la produzione massima.
L’imprenditore sceglie le quantità ottime dei fattori da impiegare, tenuto conto del loro costo e in situazioni di congiuntura sfavorevoli, con strumenti quali la cassa integrazione guadagni, può liberarsi momentaneamente del loro impiego.
Tutto ciò non avviene nel capitalismo giapponese.
Lo schema neoclassico è insufficiente a spiegare anche il capitalismo delle grandi imprese tedesche o scandinave e i distretti industriali italiani: qui le comunità dei lavoratori hanno un rapporto cooperativo con gli imprenditori o i capitalisti e il mondo finanziario e sono al centro delle scelte dell’imprenditore.
A differenza del capitalismo anglosassone i prodotti e le quantità da produrre non sono stabilite a priori in base agli andamenti futuri previsti sui mercati.
In Giappone il processo produttivo si attiva solo dopo che la domanda si è manifestata.
La catena dei fornitori e sub fornitori produce i prodotti intermedi solo quando questi vengono richiesti dalle aziende produttrici dei prodotti finali.
I processi produttivi sono flessibili e le macchine industriali e le fasi di lavorazione sono progettate per poter essere impiegate nell’assemblaggio o nella lavorazione di prodotti anche diversi.
Qui il problema dell’impresa non è, come nella teoria neoclassica, quali quantità ottime impiegare nel processo produttivo, ma come impiegare ottimamente le risorse date, cioè in quali produzioni, man mano che si manifesta la domanda o il processo tecnologico apre nuovi mercati o determina innovazioni tecnologiche in quelli esistenti.
Il problema del manager giapponese è diverso dal problema del manager statunitense: il manager giapponese deve rendere ottima la funzione di produzione date le quantità di persone impiegate e impiegarle per produzioni differenti, al variare della domanda.
La funzione di produzione è positivamente influenzata da una valida organizzazione della produzione, dall’esperienza e l’abilità con cui la quantità di lavoro è impiegata.
L’impiego ottimo dei fattori della produzione risiede in un’organizzazione flessibile del lavoro ed in un’elevata accumulazione di esperienza produttiva flessibile dei lavoratori.
Sono variabili non quantitative ma qualitative, immateriali.
Anche il finanziamento delle imprese giapponesi non avviene con il mercato primario azionario, ma con le banche, anche se con una modalità diversa da quella tedesca.
Il cuore del capitalismo giapponese è il Keiretsu, che indica raggruppamenti di imprese, operanti in settori diversi, collegati da partecipazioni incrociate, reti relazionali e vincoli etici, di appartenenza al gruppo.
Il Keiretsu è un fronte unito di società che operano insieme, ma indipendentemente, per perseguire obiettivi comuni e definiti.
Al centro del Keiretsu vi sono una o più banche che forniscono capitale di finanziamento necessario, rendendo limitato il potere degli azionisti e permettendo ai manager di avere più libertà d’azione.
Con la guerra di Corea e lo scoppio della guerra fredda gli USA ebbero bisogno di rafforzare il Giappone e diedero libertà di riorganizzare l’economia del Paese contribuendo anche con forti aiuti finanziari alla sua ripresa.
Il keiretsu è un conglomerato a integrazione orizzontale o verticale di imprese industriali, commerciali e di una banca che funge da finanziatore.
A lungo non è stato introdotto in Giappone il principio di separazione tra banca e industria, comune nei Paesi anglosassoni e aggirato in Germania con la delega di voto nel 1997, su pressione della lobby finanziaria anglosassone, è stato posto nella legislazione nipponica un tetto al 5% della partecipazione delle banche alle imprese industriali.
La presenza di una banca è la principale differenza tra il keiretsu e il chaebol coreano, che è stato costruito a imitazione del modello giapponese.
Il keiretsu finanziario è il più evoluto e di cui fanno parte le Big six, sei gruppi a integrazione orizzontale con al centro una grande banca.
Tre di esse sono ex zaibatsu (Mitsui, Mitsubishi and Sumitomo) e tre (Sanwa, Fuyo and Dai- IchiKangyo) sono di nuova costituzione, dopo la guerra.
Di regola questi trust hanno una sola impresa per ogni settore di attività per avvantaggiarsi di economie di scala ed evitare la concorrenza infragruppo.
Caratteristica delle Big six è il President’s club, consiglio che decide e coordina le strategie del gruppo.
Il keiretsu di distribuzione (distribution keiretsu) a integrazione verticale controlla il flusso di beni e servizi dalla produzione al consumatore (B2C).
Solitamente sentono meno l’influenza delle banche e sono più piccoli rispetto ai keiretsu orizzontali e sovente sono inseriti in essi, ma con autonomia gestionale.
Il segreto dell’efficienza di questa struttura sta nel ricorrere a una rete di sub-fornitori che opera come un paracolpi nei periodi sfavorevoli del ciclo economico.
Nelle grandi compagnie i dipendenti hanno un diritto alla stabilità del posto a vita, mentre le piccole imprese licenziano e assumono secondo l’andamento della domanda.
Il keiretsu manifatturiero (manufacturers keiretsu) organizza integrandola verticalmente una piramide di fornitori e di sub-appaltatori captive (che sono il paracolpi del gruppo per i periodi sfavorevoli) di prodotti intermedi e di produttori di beni in un’unica struttura (Toyota, Nissan, Honda– Matsushita, Hitachi, Toshiba, Sony).
Il keiretsu assicura la piena occupazione e distribuisce i rischi e che le crisi congiunturali e strutturali sono affrontate senza considerare l’ipotesi del licenziamento della maggioranza dei lavoratori.
Anche qui il rapporto Banca – industrie del Keiretsu è di tipo cooperativo ed armonico e non basato sul breve termine e la revoca.
E’ molto più vicino all’esperienza tedesca che a quella italiana, in cui la Banca finanzia l’imprenditore a breve e solo in percentuale del suo patrimonio.
Il sistema giapponese porta quel Paese ad avere un consistente numero di imprese tra le più grandi e potenti del mondo, come si desume dalla classifica Forbes 2013.
Il management FIAT affronta processi di ottimizzazione diversi da quelli del management ad es di Mitsubishi perché il primo opera solo nel mercato automobilistico, mentre l’altro in molti settori economici e il gruppo giapponese ha una potenza finanziaria e bancaria notevole: attualmente Mitsubishi è presente in molti settori industriali, tra cui metallurgia, petrolchimica, chimica fine, lavorazione del vetro, produzione di automobili, cantieristica navale, aeronautica, elettronica e l’agroalimentare, settore immobiliare.
re azionista di alcune delle principali banche del Paese.
Il management seguirà l’andamento mondiale di un solo mercato, quello automobilistico e produrrà in base alle domande di automobili dei Paesi, cercando di allocare le produzioni nei Paesi in cui è più conveniente.
Le filiere produttive e i processi produttivi, specialmente in fase di assemblaggio, sono studiati per essere così flessibili da poter essere utilizzati per assemblaggi di prodotti molto diversi.
Un’organizzazione del lavoro così flessibile come quella giapponese dipende da fattori istituzionali e culturali.
La vera fonte del vantaggio comparato tra nazioni qui, a differenza della teoria neoclassica, non è la dotazione dei fattori, ma la diversa accumulazione di capitale umano specifico; il maggiore orizzonte di pianificazione intertemporale consentito dai meccanismi istituzionali; la flessibilità produttiva; l’incentivo all’innovazione tecnologica meccanismi di controllo effettivo dei finanziatori dei grandi gruppi industriali, quali il Keiretsu giapponese o l’auftichtsrat tedesco, che rendono meno netta la separazione tra Banca e Gruppi industriale, ma consentono un flusso informativo che permette ai creditori di prevenire perdite, imponendo cambi manageriali, di strategia o di proprietà.
La teoria neoclassica ha studiato il problema della scarsità dei fattori produttivi in relazione alla molteplicità dei
bisogni espressi dal mercato.
E’ una teoria del valore che dà risposta ai quesiti economici in relazione alle ipotesi che considera.
Restano sempre al di fuori di una teoria dei territori da esplorare: quelli non presenti nelle ipotesi di partenza o nella realtà storica e culturale esaminata.
Verso la metà del XIX secolo si sviluppò la scuola storica in Germania, dove List, Roscher e Knies negano la possibilità di studiare la scienza economica come una scienza naturale e ritengono che l’influenza della storia sia predominante.
E’ possibile studiare l’economia secondo loro, solo in un certo Paese e in una certa epoca.
Dicono che non esiste una scienza economica, ma solo la storia economica.
In tutte le economie democratiche e capitaliste sono diversi i meccanismi di finanziamento delle imprese.
Il finanziamento delle imprese è il punto centrale dell’analisi economica.
Dobbiamo a Keynes la capacità di aver concentrato l’attenzione sull’importanza dell’investimento fisico aggiuntivo e la sua dipendenza tra il confronto tra il tasso di interesse corrente di mercato e le prospettive di profitto dell’imprenditore, che Keynes definisce efficienza marginale del capitale.
La soluzione proposta da Keynes è una modalità per rendere possibile il presupposto classico che tutta la parte del reddito non consumata, tutto il risparmio, fosse realmente investito.
L’osservazione che questo può non accadere aveva concentrato i suoi sforzi di ricerca sulle condizioni perché questo potesse accadere e sull’importante ruolo delle aspettative.
Volendo perseguire un modello analitico coerente con gli schemi neoclassici e avversario della scuola tedesca, Keynes cercò di perseguire l’aumento degli investimenti del capitale fisico con l’aumento dell’offerta di moneta e con la sostituzione di investimenti pubblici a quelli privati in determinate condizioni.
La prima strada aprì il dibattito intorno alla curva di Phillips.
Quella strada lascia una permanete inflazione e non è in grado di consentire un incremento permanente dell’occupazione.
Sia che un economista abbia una formazione più vicina ai classici e neoclassici inglesi, sia che abbia una formazione più vicina a keynes, il problema di consentire che tutto il risparmio si trasformi in investimento (per esprimersi in termini neoclassici) ovvero che gli investimenti in capitale fisico raggiungano il massimo livello possibile (per esprimersi in termini keynesiani) è il vero punto centrale per creare occupazione e reddito.
Il Keiretsu giapponese e l’auftichtsrat tedesco non servono solo agli investitori per effettuare un efficiente controllo sui capitali investiti e prevenire e affrontare le crisi industriali molto più efficiente dei mercati secondari anglosassoni e delle procedure fallimentari occidentali.
Istituzionalmente essi risolvono in un gioco cooperativo il problema di consentire che tutto il risparmio si trasformi in investimento abbattendo, con le deleghe di voto nell’auftichtsrat tedesco e con il President’s club nel keiretsu giapponese, due problemi dei meccanismi anglosassoni: le asimmetrie informative tra managment aziendale e mercati finanziari; facendo partecipare istituzionalmente i finanziatori ad eventuali perdite di profitto; rispettando la dignità di tutti gli uomini che partecipano alla grande azienda quale che sia il loro ruolo (lavoratore, manager, finanziatore).
La soluzione tedesca e giapponese al problema del rendimento dell’investimento è che non esiste più un costo del denaro da una parte (e dei creditori che lo reclameranno sempre e comunque) e un profitto realizzato dall’altro, di modo che, quando il profitto realizzato è inferiore dell’efficienza marginale prevista, cioè dell’aspettativa di profitto che aveva mosso l’imprenditore, c’è il fallimento e questo è tutto a carico di lavoratori e imprenditori.
In questi sistemi istituzionali, in cambio della facoltà riconosciuta alle banche di un controllo effettivo dell’operato del managment delle imprese affidate, i finanziatori accettano di finanziare le imprese ad una percentuale del profitto realizzato ex post.
Il costo del denaro viene stabilito ex post, in base al profitto realizzato, ma, in cambio, i finanziatori hanno diritto: alla facoltà di intervenire e modificare il managment, rimuovendo chi ha sbagliato; ad un controllo effettivo sull’operato del managment.
Questo consente di trasformare tutto il risparmio in investimento in capitale fisico aggiuntivo e consente di spostare il livello del tasso naturale di disoccupazione e raggiungere la massima produzione possibile.
Questo schema non è nato storicamente e culturalmente per risolvere il problema occupazionale ma è uno schema militare e deriva da un’impostazione mercantilista e imperialista e in questo consiste il suo limite e non considera un problema l’esistenza di Trust, ma una soluzione ai problemi economici.
Partendo da una concezione forte di nazione e di interesse nazionale, i mercati mondiali sono considerati il terreno di scontro di gruppi finanziari e industriali.
Qui i manager sono l’equivalente dei generali dell’esercito che decidono le strategie per il bene di tutti.
Non esiste alcun interesse particolare e tutto è sacrificato nell’interesse nazionale.
Chi finanzia la guerra controlla l’azione dei generali e promuove i migliori e sancisce i perdenti, ma partecipa all’esito della guerra.
La mancata separazione tra banca e impresa, la politica imperialista e mercantilista delle maggiori potenze mondiali è all’origine sia della prima guerra mondiale che della seconda.