Conferimenti e capitale, conferimenti in denaro
Dopo la riforma del 2003, l’art. 2464 c.c. segna l’inesistenza di una relazione necessaria e biunivoca tra conferimenti e capitale sociale: la tutela del capitale non è più ricercata, ponendo un rigido rapporto tra valore del singolo conferimento del socio e valore nominale delle quote che gli sono assegnate, ma “sulla base di una considerazione globale sia dei conferimenti sia del capitale. Seguendo tale strada si affida all’autonomia statutaria il compito di stabilire quali e quanti degli elementi dell’attivo conferiti dai soci in sede di costituzione della società debbano concorrere alla “copertura” della prima voce del PN, che con l’insieme di detti elementi non deve più identificarsi: per l’eventualità di apporti che per loro natura non sono a tal fine utilizzabili; per l’ipotesi che i soci decidano di non capitalizzare una parte dei conferimenti, optando per l’imputazione a riserva, come avviene nei casi dei versamenti in conto capitale e del sovrapprezzo. La rilevanza dell’innovazione introdotta dal Legislatore del 2003, riconosce la possibilità di prescindere, all’atto della “determinazione” delle partecipazioni sociali, da un criterio di stretta proporzionalità tra il valore della quota assegnata ai singoli soci e il concorso economico dagli stessi prestato ai fini alla formazione del capitale “reale”. Tale determinazione può essere operata anche secondo un criterio che si discosta dal computo del valore (reale) del conferimento e che si annoda, invece, alle scelte convenzionali liberamente compiute in sede di autonomia statutaria. “partecipazioni dei soci sono determinate in misura proporzionale al conferimento” solo “se l’atto costitutivo non prevede diversamente”. La prospettiva è quella di una separazione tra i rapporti interni alla società, dove è consentito ai soci di gradare il peso corporativo di ciascuno indipendentemente dal valore reale dei conferimenti effettuati e l’esigenza di assicurare sempre l’integrità e l’effettività del capitale sociale, perseguita con l’imposizione di una regola che richiede la sussistenza di conferimenti di ammontare (se in denaro) o valore (se in natura) nel loro insieme almeno pari a quello del capitale. Dal primo punto di vista, la norma appare coerente con l’ampliamento dei margini di operatività dell’autonomia statutaria e ben si concilia con quello che era uno dei principali obiettivi della riforma. Per il secondo aspetto, essa conferma la “necessaria immanenza” dell’istituto del capitale sociale all’attuale modello organizzativo della s.r.l., a prescindere dalla funzione che ad esso si ritenga di potere o dovere assegnare.
Uno dei profili più valorizzati della separazione tra conferimenti dei soci e capitale (nominale) è quello che riguarda l’indebolimento del principio plutocratico, il quale ha da sempre rappresentato come uno dei tratti fisionomici delle società di capitali: strutture entro le quali i poteri, gli oneri ed i vantaggi da sempre sono stati parametrati all’oggettivo valore economico del conferimento effettuato. A questo proposito, si può convenire con quanti hanno ravvisato nelle disposizioni in esame il passaggio da un sistema nel quale le prerogative sociali erano “funzione diretta dell’importo della ricchezza investita” ad uno in cui “la commisurazione del potere, dei vantaggi e dei carichi del socio alla grandezza monetaria delle risorse apportate è solo residuale”: in linea con la prospettiva – già delineata dal legislatore delegante – di parziale avvicinamento della s.r.l. alle società di persone, nelle quali i soci godono della massima libertà nella determinazione della partecipazione di ciascuno agli utili e alle perdite della gestione sociale. Ciò non deve indurre a ritenere che dalle norme degli artt. 2464 e 2468, discenda l’ulteriore svalutazione del ruolo organizzativo interno del capitale sociale nominale, inteso come parametro di riferimento per la misurazione dei diritti e dei doveri dei soci. Per questo profilo, la distanza tra la nuova s.r.l. e i modelli di società a struttura personalistica è rimasta, anche dopo la riforma del 2003, immutata: dovendosi escludere che, ad onta delle formule descrittive talvolta utilizzate, la s.r.l. rappresenti oggi una “società di persone a responsabilità limitata”. Proprio le regole delle quali si discorre attestano la riconducibilità del tipo al genus delle società di capitali come può essere rilevato: dal fatto che nella s.r.l. “è socio chi ha quote del capitale sociale”, benché poi tali quote possano essere determinate prescindendo dall’entità economica dei conferimenti realizzati. Per tale società, la legge continua ad individuare nella partecipazione al capitale nominale il presupposto necessario per il riconoscimento della qualità di socio, disinteressandosi dall’entità del concorso prestato dai singoli alla formazione effettiva del capitale reale: laddove nella disciplina delle società di persone, la distinzione tra determinazione statutaria del capitale nominale e partecipazione alla sua formazione reale, non solo non è prevista dal diritto positivo, ma risulta contraddittoria rispetto alla circostanza che il primo non è mai, per tali società, “oggetto di autonome vicende” rappresentando piuttosto “l’esito della sua formazione effettiva, attraverso i conferimenti”; dalla circostanza che il capitale nominale consente di delimitare la rilevanza che ciascun socio assume nell’organizzazione sociale. Se è vero che dopo la riforma la commisurazione dei diritti partecipativi non è più proporzionale alla grandezza monetaria delle risorse apportate, altrettanto sicuro è che ancora oggi tali diritti spettano se e nella misura in cui si detengano quote del capitale nominale.
Determinazione non proporzionale delle partecipazioni sociali: i conferimenti “atipici”. La determinazione non proporzionale delle quote di partecipazione può poggiare su esigenze di carattere endosocietario, legate all’acquisizione al patrimonio sociale di conferimenti “atipici”, i quali non sono imputabili né al capitale, né al patrimonio di bilancio: o perché “non suscettibili di valutazione sulla base di criteri oggettivi” o perché “non incrementativi del patrimonio sociale”. La legge invitava il legislatore delegato “a dettare una disciplina dei conferimenti tale da consentire l’acquisizione di ogni elemento utile per lo svolgimento dell’impresa sociale”, permettendo “ai soci di regolare l’incidenza delle partecipazioni sociali sulla base di scelte contrattuali”. Vengono in considerazione tutti quei valori immateriali che non risultano valutabili in modo oggettivo (know how, il riconoscimento di diritti di esclusiva o ad alcune tipologie di brevetti); o quelle utilità che, sebbene non iscrivibili all’attivo di bilancio, servono comunque ad agevolare il perseguimento dell’oggetto sociale (prestazione di garanzie, fornitura di liste clienti). Rispetto alle tipologie di beni e utilità così indicate è indubbio che la scelta sistematica superi l’impostazione che in passato ne negava la conferibilità: consentendo di remunerare, su base “negoziale” e con l’assegnazione di quote di capitale, apporti aventi ad oggetto entità inutilizzabili ai fini della copertura reale del capitale. Detta conclusione vale nel caso: in cui la non imputabilità dipenda da rischi di integrità della prestazione oggetto del conferimento (dazione di beni di valore incerto o negativo); nel caso in cui i problemi riguardino l’effettività dell’apporto (nelle ipotesi in cui lo stesso si sostanzi in utilità economiche insuscettibili di essere prestate uno actu). L’art. 2500-quater c.c. nel disciplinare l’“assegnazione di azioni o quote” in caso di trasformazione di una società di persone in società di capitali, proprio al meccanismo in esame fa riferimento ai fini della determinazione della partecipazione da riconoscere ai soci d’opera. Occorre chiarire quali conseguenze possano derivare dall’eventuale concreta ineffettività del conferimento atipico.
Talune riflessioni svolte in dottrina sull’art. 2464 c.c. meritano di essere valorizzate. Tra queste occorre annoverare: la sua “singolarità” (il fatto di discendere testualmente dalla II direttiva ed essere norma riferita alla s.r.l., tradizionalmente estranea all’ambito di applicazione del diritto comunitario); la progressione testuale rispetto alla quale la disposizione in commento si colloca: subito dopo la disposizione secondo la quale l’ammontare complessivo dei conferimenti non può essere inferiore al valore del capitale nominale, prima dell’elencazione delle classi di entità conferibili e della loro specifica disciplina. La norma, quanto alla “singolarità” della disposizione, offre uno spunto interpretativo giacché evidenzia l’intenzione del Legislatore di ampliare il novero delle entità conferibili nella s.r.l. in ragione del diverso ruolo in essa assunto dai soci e dai rapporti tra soci. Nel far ciò rafforza la convinzione che una norma di portata così ampia assolva la funzione di tratteggiare una disciplina autonoma della conferibilità nella s.r.l. In merito all’identità testuale con la disposizione della II direttiva comunitaria occorre rilevare che essa risponde al ruolo di clausola generale di tale norma, riferibile a tutte le società di capitali ed atta ad attrarre all’area della conferibilità anche entità tradizionalmente ritenute non imputabili a capitale e pur tuttavia utili per l’impresa comune; le sole eccezioni a tale regola generale sarebbero quelle previste dalla legge (come i conferimenti di opere e servizi nella s.p.a.) o dall’atto costitutivo. Tale disposizione segue nella progressione testuale la prescrizione secondo la quale il capitale sociale nominale non può essere inferiore al valore complessivo dei conferimenti (art. 2464, co. 1). O si considera la disposizione in esame meramente declaratoria atteso che essa prevede un criterio generale di conferibilità, salvo poi ritenere conferibili e disciplinare le sole entità menzionate ai commi successivi; o le si assegna la funzione di clausola generale di tal che l’elenco che segue risulti esemplificativo in guisa da poter ritenere conferibili anche entità ad esso non direttamente riconducibili. Nella s.r.l. risulterebbero ammissibili quei conferimenti in natura atipici tradizionalmente esclusi dall’imputabilità a capitale, ma rispetto ai quali sembrano oggi accettabili le “ipotesi ricostruttive più liberali”. Stante il disposto del secondo comma dell’art. 2464 si può affermare che l’elencazione che ad esso segue di entità conferibili è esemplificativa e non tassativa, potendo essere conferite anche entità non espressamente menzionate e tradizionalmente non imputabili a capitale purché rispondenti alla funzione di accrescimento patrimoniale e purché oggettivamente valutabili. Questa lettura è più coerente alle intenzioni del Legislatore della riforma, rispondendo sia all’esigenza di differenziare più nettamente la S.p.A. dalla S.r.l., accentuando per quest’ultima quella curvatura personalistica che ha portato all’ammissibilità anche di prestazioni tradizionalmente estranee alla conferibilità, quali le opere e i servizi, sia all’esigenza di ampliare senza porre vincoli troppo stringenti, in punto di oggetto come di procedura, l’ambito delle entità conferibili.
Il sistema esclude la conferibilità di quelle entità che non sono trasferibili. Tali entità pur potendo essere considerate “elementi dell’attivo patrimoniale suscettibili di valutazione economica” non possono essere destinate all’iniziativa economica comune atteso che sono inidonee ad attuare una vicenda traslativa dal patrimonio di un soggetto a quello di un altro. L’intrasmissibilità, risolvendosi nell’impossibilità di destinare una risorsa ad un certo scopo, esclude la risorsa dal novero delle entità conferibili. Tanto la condizione di conferibilità, secondo la quale la risorsa deve consistere in un elemento dell’attivo patrimoniale, quanto quella per cui essa deve essere suscettibile di valutazione economica sono state oggetto di interpretazioni difformi, variandone la lettura in funzione del grado di autonomia che si assegna alle regole in tema di conferimenti rispetto ad altri segmenti del diritto delle società di capitali. In merito all’interpretazione di “elementi dell’attivo patrimoniale” si rintracciano due orientamenti: – alcuni dicono che tale espressione vada limitata alle entità in grado di dotare la società dei mezzi finanziari idonei a realizzare l’oggetto sociale, ritenendosi “non tranquillante” seppur astrattamente ammissibile, l’imputabilità a capitale di prestazioni che consistano in un vantaggio indiretto, in una riduzione del passivo. Secondo tale interpretazione restano escluse dalla conferibilità nella s.r.l. prestazioni di non facere o obblighi di non concorrenza. Altri ammettono una nozione più ampia di elemento dell’attivo patrimoniale tale da comprendere sia entità consistenti in prestazioni negative come anche i “conferimenti indiretti”. In realtà, anche rispetto alla conferibilità di tali entità le opinioni sono divise. Tra le prestazioni negative vengono ritenuti: conferibili gli obblighi di non fare e non conferibili i conferimenti indiretti, quali la rinuncia di un socio ad un credito verso la società; conferibili entrambi gli ordini di prestazioni. La caduta del divieto di conferibilità dei servizi renderebbe oggi conferibili anche le prestazioni negative, alle quali potrebbe essere applicata la disciplina prevista per il conferimento di servizi (art. 2464 c.c.). Discussa è la questione della conferibilità delle promesse di pagamento o finanziamento o degli impegni del socio a prestare garanzie per obbligazioni della società. Il problema non è solo di incertezza o difficoltà nella valutazione, ma di mancanza dell’oggetto del conferimento rispetto all’esigenza primaria di avviare l’impresa. Controversa è anche la questione dei cespiti gravati da debiti come, per esempio, l’azienda. La conferibilità dell’azienda il cui valore risultante dalla stima sia negativo è ritenuta ammissibile se da tale conferimento la società potrebbe trarre un qualche vantaggio anche indiretto, mentre si dubita dell’ammissibilità di tale conferimento evidenziando il rischio di sbilancio patrimoniale. Discussa, ma risolta in termini favorevoli, è poi la conferibilità di entità che pur potendo comportare un accrescimento patrimoniale in termini positivi, si connotino per non definitiva nel senso che i medesimi non risultino immediatamente fruibili per la società o necessitino della collaborazione del conferente (attribuzione di beni in godimento). In detti casi, il problema dei conferimenti che implichino un’attribuzione alla società a titolo non definitivo sono ritenuti ammissibili dopo il 2003 (conferimento in godimento, conferimento avente ad oggetto prestazioni di durata) consiste nel rendere il bene disponibile alla società in una “misura” certa, nell’individuare un tempo determinato di durata della prestazione che ne permetta una valutazione obiettiva e proporzionata in termini economici. Il requisito della suscettibilità di valutazione economica è ancora più “sfuggente” e “problematico” di quello di “elemento dell’attivo patrimoniale”. Anch’esso può essere letto in prospettive differenti connesse al maggiore o minore grado di autonomia che si assegna alle regole in tema di conferimenti rispetto alle regole sulla formazione e funzione del capitale e al bilanciamento che si ritiene di operare tra gli interessi dei soci (ad acquisire elementi utili per lo svolgimento dell’impresa) e gli interessi dei creditori. Il punto di equilibrio tra questi diversi interessi è stato, nel tempo, oggetto di dissidi dottrinali.
I conferimenti di know how sono ammissibili sulla scorta delle risultanze positive di settore. Tra i casi rispetto ai quali per un certo periodo vi è stata incertezza circa la conferibilità in sé e rispetto ai quali sono intervenute modifiche legislative decisive vi è quello dei diritti di proprietà intellettuale, del know-how e del diritto al nome e all’immagine. Per i diritti di proprietà intellettuale ed il know-how non sembrano esservi dubbi sulla loro conferibilità in società quali beni in natura. Le incertezze interpretative in merito a tali entità derivavano sia dalla difficoltà di valutazione economica legata all’innovatività dei risultati, sia dalla considerazione della suscettibilità di valutazione economica come espropriabilità. Rispetto alla valutazione economica e alla conferibilità di tali beni la riforma del Codice della Proprietà Industriale del 2005 ha introdotto una categoria nuova, dei diritti di proprietà industriale non titolati (art. 2, art. 98 C.P.I.). Nel panorama dei diritti di proprietà industriale si distingue oggi tra: diritti titolati → si ottengono dopo una procedura amministrativa di rilascio di un titolo attraverso la registrazione o brevettazione; diritti non titolati
→ situazioni giuridiche di fatto, tutelate con la tecnica del diritto esclusivo. Prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice i marchi non registrati, le invenzioni non brevettate, le conoscenze tecniche aziendali alle quali è riconducibile il know-how, erano tutelate con la disciplina della concorrenza sleale, che offriva una tutela personale ed obbligatoria, una tutela solo rispetto a comportamenti contrari alla lealtà e correttezza professionale. Con l’entrata in vigore del nuovo codice sia i marchi non registrati che le invenzioni non brevettate sono state equiparate dal punto di vista della tecnica di tutela alle invenzioni brevettate e ai marchi registrati; anch’essi sono oggi tutelati con il diritto esclusivo che permette di agire giudizialmente verso chiunque utilizzi o sfrutti il medesimo trovato.
Pur dandosi differenti condizioni di accesso alla protezione la tecnica di tutela utilizzata è in entrambi i casi quella del diritto esclusivo. La tutela tramite il diritto esclusivo anche di situazioni di fatto ne agevola la circolazione, offrendo maggiore protezione nelle vicende traslative, che in passato esponevano il titolare del diritto ai rischi legati alla divulgazione del segreto; oggi questi rischi sono ridimensionati e ciò incide sulla suscettibilità di valutazione economica di tali diritti, offrendo argomenti a supporto di quelle interpretazioni che già in passato ne sostenevano la conferibilità. Alcune argomentazioni sostenute per i diritti di proprietà intellettuale e alcune delle ricadute della riforma del CPI accennata valgono anche rispetto al tema della conferibilità del know-how, soprattutto in ragione dell’eterogeneità di contributi che vengono ricondotti alla nozione di saper fare. Oggi le “informazioni aziendali ed esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali” sono disciplinate agli artt. 98 e 99 CPI e sono tutelate attraverso un diritto esclusivo non titolato di proprietà industriale (art. 2 CPI); tale soluzione offre margini più ampi di certezza rispetto ad eventuali rischi di violazione del segreto e conseguente dispersione dell’innovazione. Per quanto riguarda il saper fare considerato come capacità o abilità personale nello svolgere determinate attività esso può essere ricondotto alla prestazione di un servizio, così come già in parte proposto nel dibattito sull’argomento assistito, oggi, dalle “assicurazioni”. Tema connesso allo sfruttamento dei diritti di proprietà intellettuale e del know-how è quello della conferibilità del diritto all’uso del nome civile o dell’immagine di personaggi noti e accreditati.
Anche in tal caso si tratta di entità riconducibili alla nozione tracciata all’art. 2464 alla classe dei conferimenti in natura, rispetto ai quali i dubbi del passato sono stati risolti da interventi legislativi di settore. Per quanto riguarda sia lo sfruttamento del nome che dell’immagine di un personaggio noto l’art. 8 del CPI ammette la possibilità di registrare come marchio il ritratto, il nome e altri segni; sarà possibile conferire in godimento o cedere alla società secondo la disciplina dei conferimenti in natura anche i diritti relativi a tali segni, realizzando uno degli obiettivi della riforma consistente nell’offrire ai soci la possibilità di “personalizzare” l’apporto e la partecipazione all’impresa sociale. Un ultimo cenno in tema di entità conferibili deve essere concesso ai “nuovi beni”, entità spesso di ancora incerta qualificazione giuridica, non assistite da specifici diritti esclusivi e da un regime proprietario che ne agevoli la circolazione e la tutela, ma che sono economicamente appetibili anche sotto il profilo dell’esercizio in comune dell’attività di impresa. Per esemplificare, ci si domanda se e a quali condizioni siano conferibili in una srl i diritti di utilizzazione economica di un “format” televisivo o se e come siano conferibili diritti su eventi sportivi di rilievo o su un’idea pubblicitaria. Rispetto a questi “nuovi beni” dottrina e giurisprudenza oscillano nel riconoscere ora una tutela di stampo proprietario, ora una tutela di natura obbligatoria; il fatto che tali beni si ritengano assistiti da un diritto esclusivo o meno non incide tanto sulla loro conferibilità, lo snodo cruciale essendo quello dell’assegnazione a tali beni di un valore certo e dell’“assicurazione” di tale valore all’impresa sociale attraverso i congegni a tal fine predisposti dalla legge. Come già accennato in tema di diritti di proprietà industriale titolati e non titolati (n. 27), il fatto che a difesa di una licenza esclusiva su un evento sportivo si possa agire attraverso rimedi di carattere assoluto e reale previsti per tali diritti o avvalersi unicamente di una tutela risarcitoria, incide sul regime di circolazione e sul valore economico da assegnare a tali “nuovi beni”.
Alla stipulazione dell’atto costitutivo il Legislatore impone che i soci abbiano versato almeno il 25% dei conferimenti in denaro sottoscritti e tutto l’eventuale sovrapprezzo previsto. La % dei versamenti iniziali obbligatori è ridotta rispetto a quanto stabilito in precedenza e la modifica si allinea alla nuova disciplina introdotta per le spa dall’art. 2342 c.c. Al contempo, mentre per la spa la riduzione della soglia minima dei versamenti era controbilanciata dall’aumento del capitale sociale minimo, nella disciplina della s.r.l. il capitale minimo era rimasto invariato. Ne risulta un obbligo di prestare alla società una dotazione iniziale di mezzi propri in misura inferiore rispetto al passato. Questa circostanza, con la “sostituibilità” dei versamenti iniziali con la stipulazione di una garanzia bancaria o assicurativa, è un elemento a conferma della svalutazione della rilevanza dell’effettività dei mezzi propri della srl, quanto meno alla costituzione, operata dal legislatore della riforma del 2003. Resta invariato rispetto al passato l’obbligo di eseguire integralmente i versamenti dovuti nel caso di socio unico, per tutelare l’integrità del capitale sociale. La presenza di un solo quotista accrescerebbe il rischio per la società di non riuscire poi ad ottenere i versamenti che non fossero stati eseguiti alla costituzione della società, potendo fare affidamento sul patrimonio di un unico debitore. L’esecuzione dei versamenti iniziali non sarebbe più una delle condizioni per la costituzione della società, a differenza di quanto disposto dalla disciplina precedente alla riforma del 2003, ma in realtà, nonostante le medesime è opinione dominante che l’esecuzione dei versamenti iniziali sia rimasta una condizione di costituzione della società, la cui necessità trova conferma anche nel tenore letterale dell’art. 2464 c.c. Il Legislatore non si è preoccupato di meglio stabilire il momento in cui i versamenti debbano essere effettuati, ossia se prima della sottoscrizione dell’atto costitutivo redatto dal notaio, o anche ad una data successiva, purché comunque precedente alla iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese. È prevalente l’orientamento secondo cui il versamento debba essere eseguito prima della stipulazione dell’atto notarile, trattandosi di assolvere una delle condizioni per la costituzione della società, non per la sua iscrizione nel registro delle imprese, la cui sussistenza deve essere accertata dal notaio alla redazione dell’atto. Non mancano voci favorevoli alla tesi opposta. Secondo l’orientamento prevalente, il notaio rogante avrebbe l’obbligo di rifiutare di redigere l’atto costitutivo, in assenza della documentazione attestante l’esecuzione dei versamenti dovuti. L’omissione di tali versamenti, se è comunque seguita dall’iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese, non è causa di nullità della società, non ricadendo nella scarna casistica elencata nell’art. 2332 c.c. Tale situazione configurerebbe una violazione di legge, di cui sarebbe responsabile il notaio nella sua qualità di garante della legalità del procedimento costitutivo della società e che poi darebbe luogo anche a responsabilità degli amministratori, qualora non intervenissero a chiedere ai soci l’integrazione dei versamenti in conformità alle disposizioni di legge. La precisazione dell’obbligo di versare integralmente l’eventuale sovrapprezzo è una novità rispetto alla disciplina vigente prima della riforma del 2003, che imponeva tale adempimento solo con riferimento alle azioni o quote da liberarsi tramite conferimenti in natura. Non è espressamente disciplinata, benché sia generalmente risolta in senso negativo, l’ammissibilità della compensazione dei crediti vantati dalla costituenda società per l’esecuzione dei versamenti iniziali con controcrediti vantati dai soci nei confronti della società. La compensazione sarebbe impossibile, in ragione dell’inesistenza di uno dei due soggetti tra cui essa dovrebbe operare, ossia la società, nel momento in cui la compensazione dovrebbe dispiegare il proprio effetto. È prevalente l’opinione secondo cui la compensazione sia ammissibile in sede di aumento di capitale, mentre maggiormente discussa è la questione della compensabilità dei crediti della società per i versamenti residui da effettuarsi dai soci dopo la costituzione e riguardanti la sottoscrizione di capitale iniziale. Il versamento dei conferimenti in denaro, alla sottoscrizione, va fatto dall’organo amministrativo nominato con l’atto costitutivo.
Ci si riferisce alla previsione della “sostituibilità” del versamento iniziale con la stipula di una fideiussione bancaria o di una polizza assicurativa, le cui caratteristiche dovrebbero essere determinate con un decreto del p.d.c. dei ministri, che però non è mai stato emanato. La normativa del 2001 aveva introdotto per tutte le società di capitali il principio della “sostituibilità” della sottoscrizione del capitale sociale con la stipula di garanzie bancarie o assicurative. Intento dichiarato del legislatore, nell’introdurre tale innovazione, era l’agevolazione della nascita di imprese con investimenti di capitale minimi, avendo preso atto che nella “nuova economia” l’elemento essenziale su cui deve fondarsi l’impresa non è costituito dal capitale finanziario, ma dalle idee, dalle risorse intellettuali. Premesse le dovute riserve sulla sicurezza con cui il legislatore del 2001 dichiarava superata l’esigenza di attribuire ad un’impresa di nuova costituzione una dotazione di mezzi finanziari propri, si ricorda che la norma si era esposta a radicali censure di legittimità. Il riferimento letterale alla sostituibilità della “sottoscrizione” del capitale sociale con la concessione di garanzie si poneva in contrasto con i principi base del diritto delle società di capitali, secondo cui la sottoscrizione era condizione per la costituzione della società e l’omessa indicazione del capitale sottoscritto era causa di nullità della società. L’unica via per pervenire al “salvataggio” della norma del 2001 era forzare la lettera della legge e interpretarla sostituendo il concetto di sottoscrizione con quello di versamento del conferimento. Anche così, la disposizione appariva in conflitto con i principi sulla formazione del capitale sociale sanciti dall’art. 9, II direttiva comunitaria in materia societaria e obbligatori per le spa, così da risultare contra legem. La disposizione del 2001 non ha potuto confrontarsi con gli eventuali problemi applicativi, in quanto la disciplina secondaria che avrebbe dovuto indicare le caratteristiche delle garanzie non è mai stata emanata, forse anche alla luce delle critiche che avevano colpito la norma di fonte primaria. L’omessa espressa adozione dell’istituto delle garanzie sostitutive per le spa dal legislatore della riforma del 2003 e la sua previsione nell’art. 2464 c.c. inducono a concludere per un’abrogazione della disciplina del 2001. Essa è ora esclusa per le spa e ridelineata per le srl, nei cui confronti non si pongono questioni di compatibilità con la II direttiva CEE in materia societaria che, in assenza di un obbligo di fonte sovranazionale, il legislatore italiano ha optato di non applicare al tipo di società in esame.
Quanto al contenuto delle garanzie sostitutive, la sua determinazione è rimessa ad un provvedimento di fonte secondaria, un decreto del presidente del consiglio dei ministri. Nonostante sianotrascorsi parecchi anni dalla modifica dell’art. 2464 c.c., simile provvedimento non è mai stato emanato, impedendo alla norma di fonte primaria di entrare in vigore. La dottrina ha avuto modo di elaborare indicazioni in merito alle caratteristiche più appropriate della fideiussione bancaria e della polizza assicurativa. Si ritiene in generale che la fideiussione e la polizza debbano soddisfare il requisito dell’astrattezza, in modo da impedire che il garante o il socio debitore possano opporre eccezione o ostacolarne l’escussione dalla società. Si richiama l’apposizione della clausola di pagamento a prima domanda; altra dottrina rinvia al contratto autonomo di garanzia, che è figura giuridica diversa rispetto alla fideiussione e alla polizza assicurativa. Altri aspetti sulla disciplina delle garanzie di cui sarebbe auspicabile il regolamento tramite normativa di fonte secondaria e che devono essere affrontati per via contrattuale, attengono alla durata del contratto, ai presupposti della sua escussione, alla sua sorte nel caso di cessione della quota e di liquidazione volontaria o coatta della società e al recesso del socio. Quanto alla durata dei contratti, essa è dipendente dalla durata della società. Se la società fosse costituita a tempo indeterminato, dovrebbero esserlo anche le garanzie, benché tale caratteristica potrebbe rendere più complessa la loro disciplina contrattuale. Si porrebbe la questione del diritto di recesso ad nutum del garante e delle sue conseguenze, che sarebbero equiparabili alla scadenza della garanzia ex art. 2466 c.c.
Non si potrebbe escludere che lo statuto stabilisca una durata della garanzia più breve rispetto a quella della società, obbligando il socio ad effettuare il versamento in denaro alla scadenza del contratto. Simile previsione sarebbe coerente col riconoscimento alla garanzia della funzione di differire l’obbligo di eseguire il conferimento in capo al socio, senza sostituirlo. La sostituibilità della garanzia scaduta o divenuta inefficace con una somma di denaro di valore pari a quello dell’obbligazione garantita – cioè, l’esecuzione dei versamenti – o con una nuova garanzia valida ed efficace non pare compatibile con la teoria che riconosce alla stipulazione dei contratti in essere una funzione solutoria e liberatoria dell’obbligo di effettuare i versamenti in denaro iniziali. Il garante avrebbe diritto di recedere dal contratto nell’ipotesi di mancato pagamento delle commissioni o premi dal socio. Per evitare questo rischio, ci si è spinti a proporre che la società si renda obbligata solidalmente con il socio, per l’adempimento dei suoi obblighi verso il soggetto emittente le garanzie. La bozza del d.p.c.m. del 2004 si limitava a stabilire che il garante dovesse ottenere copia dei documenti societari comprovanti il ricorso al meccanismo sostitutivo della fideiussione o della polizza, nonché trasmettere alla società copia della documentazione riguardante la garanzia concessa. L’operatività della fideiussione e della polizza assicurativa dovrebbe essere slegata rispetto a qualunque onere di preventiva escussione del socio. La questione non si pone qualora ai predetti contratti fosse riconosciuta funzione sostitutiva-solutoria. Detto onere di preventiva escussione del socio non sussisterebbe neppure qualora le figure in esame fossero qualificate come garanzie, sia in forza dell’applicazione del principio generale di cui all’art. 1944, co. 2, c.c. sia nell’ipotesi in cui si valorizzasse l’elemento dell’autonomia della garanzia. Deve anche segnalarsi la diversa posizione riconducibile alla tesi che considera il meccanismo in esame come “agevolazione finanziaria” e che ritiene coerente con tale qualificazione la circostanza di imporre alla società di richiedere al socio di eseguire i versamenti dovuti. Nell’orientamento che riconosce ai contratti in esame funzione sostitutiva-solutoria, si precisa che la richiesta di pagamento al soggetto terzo “garante” dipenderebbe dalla decisione discrezionale degli amministratori, conformemente al loro potere di richiamare i decimi mancanti se lo ritenessero opportuno, oltre che nel caso di liquidazione della società. Il medesimo meccanismo si applicherebbe anche qualora le figure di cui si tratta fossero ricondotte alla fattispecie delle garanzie. Quanto al regime di pubblicità, nel silenzio della legge, pare opportuno che i contratti in questione siano allegati allo statuto o che essi vi siano menzionati, con l’indicazione delle loro caratteristiche essenziali di durata e di valore, così da essere pienamente conosciute dai terzi. Sulla stessa linea era la bozza di d.p.c.m. elaborata nel 2004, che richiedeva la menzione nell’atto costitutivo della concessione delle garanzie e del loro valore. Nel caso di trasferimento della quota, si pone la questione di conservare la validità della garanzia. Allo scopo, la fideiussione o la polizza dovrebbe prevedere il subentro nel contratto dall’acquirente, anche tenendo conto che oggetto del trasferimento potrebbe essere solo una porzione della quota inizialmente sottoscritta. In caso contrario, la quota non sarebbe trasferibile in assenza della concomitante esecuzione del versamento o della stipulazione di un nuovo contratto di garanzia. Simile alternativa sarebbe evitata, se si aderisse alla tesi secondo cui, sulla base della previsione della responsabilità solidale dell’alienante con l’acquirente per l’esecuzione dei versamenti ancora dovuti prevista dall’art. 2472 c.c., anche la garanzia di cui si discute conserverebbe validità per tre anni dopo la cessione. Si tratta di stabilire se e con quali modalità il socio possa esercitare il diritto di recesso, non avendo ancora effettuato il versamento del denaro. La liquidazione della quota dovrebbe tenere conto del valore del credito vantato dalla società, salvo che la società non opti per seguire un iter più complesso, consistente nel riscuotere la garanzia e liquidare la quota del socio comprensiva del valore del versamento ottenuto, scelta che comporterebbe il successivo obbligo per il socio di rimborsare il garante escusso. Nel caso in cui non fosse azionata la garanzia, si ritiene che la fattispecie sarebbe assimilabile all’ipotesi del recesso del socio, esercitabile dopo la esecuzione del conferimento in natura, qualora il valore di quest’ultimo risultasse inferiore di oltre 1/5 rispetto al valore attribuitogli in sede di costituzione di una s.p.a. ex art. 2343, piuttosto che al recesso del socio previsto dall’art. 2473 c.c. Resta incerto il rapporto tra le garanzie previste in coincidenza con l’assunzione dell’obbligo di conferire prestazioni d’opera o di servizi dall’art. 2464 c.c. La lettera dell’art. 2464 c.c. distingue le due fattispecie, prevedendo solo per le garanzie facoltative la predisposizione di un modello standard normativo. Da tale circostanza sono ricavabili argomenti per sostenere il carattere peculiare dei contratti di cui si tratta e per sottolineare la differenza tra le fattispecie contemplate dal co. 4 e quelle previste dal co. 6 dell’art. 2464 c.c. Non manca chi ha auspicato che le caratteristiche indicate dal provvedimento attuativo prescritto dal comma 4 siano adottate anche per le
garanzie relative alle prestazioni di opera o di servizi previste dal co. 6, benché ciò sia estraneo alle indicazioni del legislatore. La bozza di d.p.c.m. del 2004 stabiliva regole intese ad applicarsi ad entrambi i gruppi di garanzie previsti dall’art. 2464 c.c., ma tale impostazione è stata censurata dal Consiglio di Stato in quanto l’estensione del provvedimento alle garanzie previste dall’art. 2464, com 6 eccedeva i limiti fissati dalla norma sovraordinata. Attivo patrimoniale: utilità diretta e indiretta (anche obbligazione negativa) che possa aumentare il patrimonio della società.